«Sempre più persone vogliono un lavoro coerente con i propri valori»
Il "conscious quitting", lasciare il lavoro perché non risponde ai propri valori, è una nuova frontiera. Intervista a Paolo Iabichino
Abbiamo sentito parlare di Great resignation, un fenomeno che ha visto, soprattutto negli Stati Uniti, un gran numero di persone lasciare il proprio posto di lavoro in cerca di una nuova occupazione. Poi di quite quitting, ovvero il ridurre al minimo il proprio impegno sul lavoro, pur mantenendo il proprio posto. Ora starebbe iniziando l’era del conscious quitting.
Il conscious quitting, le dimissioni per ragioni di valore
«Ogni amministratore delegato che pensi di poter vincere la guerra per i talenti offrendo un po’ più di soldi, un po’ più di telelavoro e un abbonamento alla palestra rimarrà deluso. L’era del conscious quitting è alle porte», si legge nel rapporto dal titolo 2023 Net Positive Employee Barometer pubblicato a febbraio scorso da Paul Polman.
Polman è un uomo d’affari olandese che ha ricoperto per molti anni ruoli apicali in grandi aziende globali, come Procter & Gamble e Nestlé. Dal 2009 al 2019 è stato amministratore delegato di Unilever, posizione nella quale si è contraddistinto per il tentativo di coniugare business e impegno a migliorare la sostenibilità sociale e ambientale dell’azienda. Oggi Polman continua la sua attività come investitore, scrittore e consulente. Sempre con l’obiettivo di migliorare la sostenibilità delle imprese.
Il rapporto presentato a febbraio è il risultato di un sondaggio online condotto dal centro di ricerca Opinium su 4mila persone, 2mila britanniche e 2mila statunitensi, impiegate in aziende di dimensioni medio-grandi. E il risultato è chiaro: la metà di loro dichiara di considerare l’idea di lasciare il proprio posto di lavoro in cerca di un impiego che corrisponda ai propri valori. Il 33% dichiara di aver già lasciato la propria azienda per questo motivo. Dati che risultano ancora maggiori tra i Millennials e la Generazione Z.
Il Covid avrebbe giocato un ruolo importante nell’accelerare questa tendenza, come sottolinea anche Paolo Iabichino, scrittore pubblicitario e direttore creativo, con cui abbiamo parlato. «La pandemia ha evidenziato le nostre fragilità e quelle del sistema in cui viviamo. Ha fatto emergere quanto sia fondamentale “fare mercato” in maniera rispettosa dei diritti, dell’ambiente, delle comunità. Ripensare ciò che produciamo e come lo produciamo, le catene di approvvigionamento. Abbiamo imparato a dare un valore diverso al nostro lavoro».
Il conscious quitting è frutto anche dello smart working?
Certamente. Nel momento in cui milioni di persone nel mondo hanno scoperto la possibilità di lavorare dalle proprie abitazioni hanno capito anche di voler lavorare in un modo più coerente con i propri valori, con la propria visione del mondo. Se spazi di vita e spazi di lavoro coincidono, vogliamo che a coincidere sia anche ciò che facciamo per vivere e ciò in cui crediamo.
Vogliamo ci sia una corrispondenza emotiva, valoriale, empatica con l’azienda per cui lavoriamo. Già prima della pandemia dal mio osservatorio vedevo sempre più ragazze e ragazzi che ai colloqui per un posto di lavoro nell’agenzia di cui ero direttore creativo facevano a me il colloquio. Volevano capire se l’agenzia alla quale si candidavano a prestare il proprio talento lavorava in maniera coerente con i loro valori.
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Come dovrebbero reagire le aziende di fronte a questo fenomeno?
In questo momento i settori che hanno maggiori difficoltà ad attrarre giovani talenti sono il tech e il fintech. E non è un caso che proprio là dove le questioni etiche sono parte integrante dei modelli di business emerga con maggiore forza questa tendenza. Le aziende in questo momento si trovano a dover ripensare i propri modelli di business sotto spinte diverse. È l’idea stessa di capitalismo a essere pregiudicata e compromessa.
E le aziende, se vogliono attrarre non solo persone, ma anche talenti, sono costrette a ripensare il proprio business. Buona parte dei brief su cui sto lavorando al momento in tema di purpose design ha tra gli ovvi obiettivi quelli di riposizionarsi e di vendere attraverso il racconto di valore. Ma nelle pagine si trova sempre anche l’esigenza di attrarre talenti. Le aziende vogliono riposizionarsi anche per diventare attrattive come posto di lavoro per giovani capaci.
È una questione generazionale?
Mi è capitato pochi giorni fa di parlare con un giovane neolaureato in marketing desideroso di mettere i propri studi al servizio di un brand come Cortilia che genera impatto sociale. Nelle mie reti sento sempre più spesso di giovani che sognano di lavorare per le ong o per il Terzo settore. E ci sono tanti ragazzi e ragazze che invece di uno stage sottopagato in una grande multinazionale preferiscono scrivere, anche gratis, per queste organizzazioni. È il frutto di un sentire nuovo, che costringerà anche le aziende ad adattarsi. E non solo in maniera “cosmetica”: occorre un reale cambiamento.
Quando parliamo di attivismo dei brand, dunque, dobbiamo pensare anche alle impiegate e agli impiegati delle aziende? Già nel 2018 oltre 3mila dipendenti di Google avevano firmato una lettera al Ceo Sundar Pichai per chiedere di abbandonare un progetto per il dipartimento della Difesa. Esercitando una sorta di obiezione di coscienza.
Finalmente le persone dipendenti delle aziende sono diventati degli interlocutori. Fino a pochi anni fa le campagne di comunicazione interna venivano studiate a tavolino per utilizzare i dipendenti come media. Si volevano usare le loro reti sociali trasformandoli in brand ambassador o altre sciocchezze. Non capivano che quando una persona è felice del proprio lavoro condivide spontaneamente le cose che fa.
I consumatori hanno un grande potere: scegliendo un prodotto o un marchio piuttosto che un altro possono premiare scelte di sostenibilità. Anche le lavoratrici e i lavoratori hanno questo potere? Penso anche a chi lavora in settori critici, come le fonti fossili, le armi, il tabacco. Scegliendo di non lavorare per un’azienda che ha un business non sostenibile possiamo cambiare le cose?
C’è da augurarselo. L’industria del tabacco, per esempio, è anche un luogo di ricerca e negli ultimi anni ha fatto dei passi avanti nell’innovare i propri prodotti per renderli meno dannosi per la salute. Certo, non sempre è possibile, non in tutti settori si può fare. Ma possiamo sperare che la spinta di ciascuno di noi nel proprio ruolo serva a rendere il nostro mondo più sostenibile.