Che fine fa il diritto del lavoro se “il tuo capo è un algoritmo”?

Nel saggio “Il tuo capo è un algoritmo”, Antonio Aloisi e Valerio De Stefano tracciano le prospettive del mercato del lavoro

Josephine Condemi
Il tuo capo è un algoritmo è un saggio di Antonio Aloisi e Valerio De Stefano © metamorworks/iStockPhoto
Josephine Condemi
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Algoritmi che scremano curricula, analizzano prestazioni, suggeriscono decisioni. Algoritmi che animano robot, incentivano azioni, muovono piattaforme, quindi merci e persone. Algoritmi come “Boss ex-machina”, secondo la suggestiva metafora dei giuslavoristi Antonio Aloisi e Valerio De Stefano. Che nel saggio “Il tuo capo è un algoritmo” (Laterza 2020, edizione inglese Bloomsbury 2022) analizzano dinamiche e impatti dell’automazione nel mondo del lavoro.

Infatti, come nel teatro greco l’entrata in scena della divinità risolutrice era affidata a un marchingegno tecnico, un ascensore o una botola, così l’automazione algoritmica promette «l’artificializzazione delle funzioni chiave del datore di lavoro». Ovvero «un sistema di micromanagement senza manager». Il capo si anonimizza e si diffonde in una serie di mini-compiti, di parametri, di alert, di correlazioni stabilite in nome dell’oggettività del modello logico-matematico. A ben vedere, proprio il mito di questa oggettività è il vero deus ex-machina che può spingere gli esseri umani ad affidarsi, delegare, dire sempre di sì alle decisioni-previsioni-predizioni algoritmiche. 

L’intelligenza artificiale degli algoritmi non è poi così artificiale

Aloisi e De Stefano decostruiscono questo mito e spiegano come l’addestramento di qualsiasi algoritmo non sia esente da umani pregiudizi, o bias cognitivi. E di come, a differenza degli algoritmi, noi esseri umani siamo capaci di gestire l’incertezza e includere le «conoscenze tacite» che derivano dalle relazioni. Conoscenze che «non si articolano in protocolli standard». Anche perché, a fronte di tanta richiesta trasparenza, non sempre è possibile ricostruire la logica che regola le algoritmiche decisioni (il noto problema della black box).

Fuori dal mito, gli autori dimostrano come la sostituzione degli esseri umani che lavorano con i robot, la cosiddetta Robocalisse, sia lontana dalla realtà. L’OCSE stima infatti che solo il 14% dei lavori sia ad alto rischio automazione.  Al contrario, l’introduzione di meccanismi di automazione parziale per migliorare la produttività può innescare la creazione di posti di lavoro, come avvenuto con gli sportelli automatici bancari cinquant’anni fa, che spinsero l’apertura di nuove filiali in posti prima considerati remoti. Ma, avvertono Aloisi e De Stefano, «per generare ricadute positive è necessario che le imprese scelgano di non congelare il frutto degli incrementi di produttività, optando per tradurli in investimenti».

Occorre investire in istruzione e formazione

Investimenti non solo in macchine, ma anche in istruzione e formazione, «infrastrutture immateriali a rendimento sicuro e diffuso nel tempo», in un Paese come l’Italia in cui più della metà della popolazione non possiede le competenze digitali di base e solo il 15% delle imprese eroga formazione in ICT (DESI 2022). 

desi 2022
Da indice DESI 2022 Italia, scaricabile da https://digital-strategy.ec.europa.eu/en/policies/countries-digitisation-performance 

Le stesse tecnologie che possono essere usate per pratiche di feudalesimo digitale e di monitoraggio invasivo possono invece essere impiegate per migliorare le condizioni di sicurezza e di salute, ovunque si lavori. La sinergia virtuosa umani-macchine, insistono gli autori, è «una polizza assicurativa contro l’obsolescenza» di pratiche disfunzionali. Perché il vero impatto delle tecnologie contemporanee riguarda la modifica di «struttura e contenuto dei rapporti di lavoro, più che il numero complessivo di occupati». 

Il rischio di deregolamentazione del mercato del lavoro

La Robocalisse rischia quindi di catalizzare un dibattito ben più ampio e diventare «un’arma retorica con cui giustificare interventi di deregolamentazione del mercato del lavoro». Interventi che non nascono in epoca digitale ma che ripropongono, attraverso la mitologia della disruptive innovation, il concetto di distruzione creativa dell’economista Joseph Schumpeter, uno dei padri del neoliberismo.   

Al contrario, Aloisi e De Stefano propongono di «contrattare la trasformazione digitale». Ovvero di negoziare l’uso delle tecnologie sui posti di lavoro e sulle decisioni, di stabilire regole chiare sui pagamenti per il lavoro online, sulle esternalizzazioni intramoenia, di istituire tutele e diritti oltre il lavoro subordinato nonché la portabilità del rating personale di chi lavora. In una parola, di (ri)cominciare a guardare le persone, dietro l’algoritmo. Perché deumanizzare le persone e umanizzare le macchine può portare a cortocircuiti umani, troppo umani.