Consumer Choice Center, la lobby fossile travestita da associazione di consumatori

Il caso del Consumer Choice Center: legato al gruppo Koch, si spaccia per difensore dei consumatori ma fa lobby per i negazionisti climatici

Caterina Orsenigo
Le lobby non di rado si nascondono dietro una facciata di difesa dei diritti dei consumatori @ Feodora Chiosea/iStockPhoto
Caterina Orsenigo
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Proviamo a immaginare questa storia: un gruppo di lobbying americano si spaccia per un centro di difesa dei diritti dei consumatori. In realtà è finanziato da industrie del gas e del petrolio. E in un anno, diciamo il 2020, impiega sedici uomini e 250mila euro con l’obiettivo di spingere l’Unione europea a raffinare più greggio e accantonare ogni ambizione di transizione ecologica. Tramite articoli su testate giornalistiche, incontri segreti con i deputati e post sui social cerca di influenzare tanto i decisori politici quanto l’opinione pubblica. Dei Bravi in giacca e cravatta, petrodollari in tasca, che in parte agiscono legalmente, in parte meno, mentono sui dati e fanno pressione perché la transizione non s’ha da fare.

Il Consumer Choice Center si professa «imparziale e indipendente»

È una trama più realistica e meno cinematografica di quanto sembri. C’è (non c’era una volta) un gruppo di pressione statunitense che si chiama Consumer Choice Center. Sul suo sito si racconta come «gruppo di difesa dei consumatori indipendente e imparziale che sostiene i vantaggi della libertà di scelta, dell’innovazione e dell’abbondanza nella vita di tutti i giorni». Parla di «politiche intelligenti adatte alla crescita», afferma di rappresentare i consumatori di più di cento Paesi in tutto il mondo («decine di migliaia di membri» e «la società in generale»). E se la prende con le autorità di regolamentazione a livello locale, nazionale e sovranazionale che «continuano a regolamentare sempre più ambiti della vita». Lasciando un ventaglio di scelta ridotto e prezzi più alti. 

Il Consumer Choice Center fino allo scorso anno era inserito nel registro delle lobby dell’Ue, per poi esserne rimosso in seguito a un controllo di qualità che rilevava imprecisioni o omissioni. E all’introduzione di regole più stringenti sul lobbismo, che richiedevano maggiore trasparenza sulle fonti di finanziamento. E in effetti dal loro sito possiamo sapere che in passato sono stati finanziati dall’industria energetica e chimica, da banche e da compagnie aeree. Ma non c’è nulla che faccia riferimento al presente. 

Le regole europee troppo poco stringenti

Tuttavia queste regole di trasparenza europee non sono giuridicamente vincolanti: non rispettandole si va incontro solo a sanzioni minime. E infatti il Consumer Choice Center ha continuato indisturbato il suo lavoro. 

Per immaginare concretamente in cosa consista l’attività di lobbying, si può ascoltare la prima puntata del podcast di Lorenzo Tecleme intitolato appunto Lobby: si parla di «uomini in giacca e cravatta che per mestiere stringono mani, prendono caffè, offrono pareri, hanno incontri riservati». Lavorano per grandi aziende, quelle che possono permetterseli. E per loro conto mantengono buoni rapporti con i decisori politici, cercando di influenzarne le scelte in una direzione o nell’altra.

Per questo è piuttosto importante che questi decisori sappiano bene con chi stanno parlando: durante quelle chiacchierate davanti a un caffè vengono difese posizioni e proposte soluzioni. E le conseguenze di quelle chiacchierate possono trasformarsi in voti e poi in leggi e politiche che influenzano la vita di milioni di persone. Va da sé che sapere chi paga di volta in volta questi uomini in giacca e cravatta e che interessi stanno difendendo sia fondamentale per pesarne le parole.

La galassia del gruppo Koch dietro alla lobby

Il Consumer Choice Center ha sede a Washington DC ed è stato fondato nel 2017 da Students for Liberty (di cui ha fatto parte fino al 2020). Un gruppo di advocacy finanziato dalla rete petrolifera Koch (una delle più grandi aziende private negli Stati Uniti, che dal 1997 ha indirizzato almeno 100 milioni di dollari a gruppi negazionisti climatici). C’è poi Atlas Network, un’alleanza di think tank a loro volta negazionisti e a loro volta finanziati da Koch e altre aziende di combustibili fossili. E il Cato Institute, più o meno stessa solfa. Non sappiamo da dove arrivino i soldi oggi, ma sappiamo che tuttora borsisti e dipendenti del Consumer Choice Center sono legati a programmi gestiti da Koch, Atlas Network e Cato Institute.

Per queste ragioni e per questi soldi, non necessariamente per difendere in maniera “indipendente e imparziale” i consumatori, il Centro ha invitato più volte l’Europa ad accantonare le sue politiche verdi. E a «raffinare più petrolio». In particolare, come racconta la giornalista Clare Carlile su DeSmog, si è opposto al progetto di eliminare gradualmente ed entro il 2035 le automobili a motore termico.

Non solo fossili: anche mobilità, biologico, pesticidi e fertilizzanti chimici

Pur essendo stato cancellato dal registro europeo delle lobby, non si è risparmiato. Ha scritto quasi 50 articoli in un anno, organizzato incontri con i deputati ed esercitato pressione. Pressione che va in direzioni abbastanza precise e coerenti fra di loro. Osteggiano il passaggio all’auto elettrica sostenendo che sono i consumatori a dover scegliere. Criticano gli obiettivi di incremento dell’agricoltura biologica e i progetti di riduzione dell’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici. 

La loro influenza non si esercita solo sui deputati del Parlamento europeo. Nel 2020 il Centro ha sovvenzionato un annuncio Facebook (ripreso poi in un articolo del 2023) destinato a un milione di persone. Secondo il quale il progetto Net Zero avrebbe aumentato del 20% il costo dell’energia. Portato a un calo del PIL e causato la perdita di 500mila posti di lavoro.  O anche, in un altro post, ha messo in guardia i consumatori dal pericolo di perdere i loro «prodotti di bellezza preferiti» a causa di regolamentazioni più stringenti sulle sostanze chimiche.

L’influenza attraverso le testate giornalistiche

Ma ciò che inquieta di più è sicuramente l’influenza sul Parlamento: i loro articoli sono pubblicati da organi di informazione dell’UE, tra cui influenti media di Bruxelles come il Brussels Times e il Parliament Magazine. Secondo Lisa Graves di True North Research, che a lungo ha fatto ricerche su Koch, la tattica di farsi passare per gruppi di difesa de consumatori pur essendo finanziati da entità commerciali interessate non è un’eccezione ma una consuetudine fra chi ha legami con la rete fossile Koch.

L’accusa del gruppo di monitoraggio LobbyFacts a Consumer Choice Center è di sostenere posizioni antiscientifiche e di non essere un centro di difesa dei consumatori, ma di fare anzi in maniera piuttosto esplicita gli interessi delle aziende fossili.

Le richieste a Bruxelles del Corporate Europe Observatory

In seguito alle rivelazioni di DeSmog gli attivisti ritengono la storia di Consumer Choice Center una prova del fatto che servano regole ancora più stringenti. E un registro che sia legalmente vincolante. In particolare il Corporate Europe Observatory chiede ora verifiche sull’ingerenza del Centro in merito al processo decisionale della Commissione europea sul tema. E ha raccomandato di avvertire i membri del Parlamento europeo perché non si incontrino più con i lobbisti del gruppo.

La denuncia è stata inviata alla presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola. Alla vicepresidente della Commissione europea per i valori e la trasparenza, Věra Jourová. E al segretario generale del Consiglio europeo, Thérèse Blanchet. Una nuova spinta dopo le misure insoddisfacenti adottate in seguito al Qatargate. Per stimolare Bruxelles a prendere provvedimenti più seri in merito alle continue interferenze non trasparenti sui processi decisionali.