Cop sul clima: chi sono i lobbisti e perché possono partecipare

Chi sono i lobbisti che partecipano alle Cop? Perché possono entrare nei negoziati sul clima? E quanto contano davvero?

Seicento alla Cop27, duemilacinquecento alla Cop28, millesettecento alla Cop29: la conta dei lobbisti è ormai una tradizione di ogni Conferenza delle parti sul clima delle Nazioni Unite. Ogni anno le ong tengono traccia di quanti tra i delegati ammessi all’incontro negoziale dell’Onu hanno legami con le aziende dell’oil&gas. E ogni anno la cifra desta indignazione. Ma come mai dei lobbisti partecipano a quella che è a tutti gli effetti una trattativa tra Stati? E quanto conta davvero la loro presenza?

Road to Belém

La governance aperta delle Cop

Le Cop sono gli appuntamenti negoziali annuali delle Nazioni Unite sul contrasto al riscaldamento globale. La prima fu a Berlino nel 1995, e quest’anno siamo arrivati alla trentesima edizione. Partecipano gli Stati firmatari della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Contrasto al Cambiamento Climatico (Unfccc). Di fatto, tutte le nazioni che godono di riconoscimento internazionale. L’obiettivo è concordare politiche comuni per evitare le conseguenze peggiori della crisi climatica. La più importante intesa sul tema, l’Accordo di Parigi del 2015, venne raggiunta proprio durante una Cop.

Le Conferenze delle Parti sono molto diverse da altri vertici internazionali come il G7, il G20 o il Brics summit. In tutti i casi i protagonisti sono i governi, che partecipano con delegazioni di diplomatici. E nei giorni chiave anche inviando i propri ministri o capi dell’esecutivo. Ma a differenza degli incontri di cui sopra, nel caso delle Cop la maggioranza dei partecipanti non è affatto composta da emissari dei governi. Le Nazioni Unite da tempo promuovono un approccio aperto, che include cioè nel processo negoziale anche esponenti della società civile, delle imprese, del mondo scientifico.

La green zone e le lobby dell’oil&gas

La sede della Cop varia di anno in anno. E gli edifici designati diventano, per la durata dell’evento, territori privi di sovranità territoriale e gestiti dalle Nazioni Unite. Per accedere è necessario un accredito, e a poterlo richiedere sono in molti. Oltre ovviamente a ministri e presidenti coi rispettivi codazzi, possono chiedere di essere ammessi giornalisti, ricercatori, attivisti, membri di sindacati, think-tank, associazioni. E appunto aziende. Una partecipazione, quella delle grandi imprese, aumentata ulteriormente da quando si è iniziato a predisporre vicino alla sede dei negoziati una green zone. Si tratta di uno spazio aperto al pubblico dove, sul modello degli Expo, nazioni e privati possono esporre la loro visione della transizione ecologica.

L’esplosione del numero dei lobbisti alle Cop è andata di pari passo con l’esplosione del numero dei partecipanti in generale. Alla Cop1 di Berlino erano accreditate cinquemila persone. Alla Cop28 di Dubai, la più grande finora, si è superata quota centomila, di cui almeno duemilacinquecento legati al solo settore oil&gas. I lobbisti non sempre partecipano ufficialmente a nome delle proprie aziende. Gli Stati hanno infatti la facoltà di inviare delegazioni molto numerose (a volte anche di centinaia di persone) e al loro interno trovano spesso posto gli emissari delle aziende. Alla Cop29 di Baku, ad esempio, il ceo del gigante del fossile italiano Eni, Claudo Descalzi, risultava accreditato come ospite della presidenza, che in quell’edizione era in mano al Governo azero.

Quanto contano le lobby alle Cop?

È difficile stimare con esattezza l’impatto della presenza dei lobbisti sugli esiti dei negoziati per il clima delle Nazioni Unite. Di sicuro l’influenza del settore dell’energia e di altri settori critici – dalla carne all’automotive – è importante ed avviene prima di tutto a livello nazionale. Numerosissime inchieste hanno dimostrato nel tempo il peso delle lobby nella definizione del Next Generation EU. O del relativo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza italiano, per restare a questioni a noi vicine.

I giorni delle Cop, però, sono momenti politici particolari, dove la pressione cittadina da un lato e le lobby dall’altro possono incidere su decisioni prese in quel breve lasso di tempo. Da questo punto di vista, la presenza di rappresentanti delle aziende dentro e fuori le delegazioni nazionali è sicuramente importante.

Il caso italiano: i tre manager Eni distaccati alla Farnesina

Un caso emblematico riguarda l’Italia. Nel 2021 l’ong Recommon rivelò l’esistenza di un accordo tra il Ministero degli Esteri e Eni risalente al 2008. Secondo quell’intesa, tre manager del gigante del fossile erano assegnati permanentemente a lavorare alla Farnesina (sede del Ministero), fianco a fianco col personale diplomatico. Non solo: nelle riunioni della cabina di regia che ha determinato la posizione italiana alla Cop26 di Glasgow, svoltasi proprio alla fine del 2021, erano invitati tre rappresentanti di Eni, due di Snam, due di Saipem, e uno di Enel.

Da tempo i movimenti e le ong ecologiste denunciano il ruolo della lobby. Alcuni anni fa alcune di queste realtà si sono unite in una campagna chiamata Kick Big Polluters Out: cacciate i grandi inquinatori. L’obiettivo è quello di escludere dal processo negoziale i portatori d’interesse delle imprese. Per ora hanno ottenuto un risultato parziale: alla Cop30 di Belém i delegati saranno tenuti a indicare chi paga le spese relative al loro viaggio e dirsi allineati «con la lotta alla crisi climatica».

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