Cop28. Perché, senza investimenti, gli impegni rimarranno parole

Alla Cop28 a mancare sono stati gli impegni finanziari. Senza i quali il Global stocktake o il fondo loss and damage rimarranno lettera morta

Il presidente della Cop28 di Dubai, Sultan al-Jaber © Christophe Viseux/Cop28

Un’immagine, più di altre, non potrà che rimanere nella memoria di chi ha seguito la ventottesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, la Cop28 di Dubai. Più dei sorrisi del presidente al-Jaber dopo aver picchiato il martelletto che ha decretato l’approvazione del Global stocktake, il primo bilancio dello stato di attuazione dell’Accordo di Parigi. Più dei volti della delegazione saudita, che si è battuta col coltello tra i denti contro un testo davvero ambizioso in termini di mitigazione dei cambiamenti climatici. Perfino più della lettera dell’Opec rivelata dal Guardian nel pieno dei negoziati, nella quale si lanciava un appello ai Paesi produttori di petrolio affinché difendessero il loro business ad ogni costo. 

Ad essere ricordato, soprattutto, sarà l’ultimo intervento di Anne Rasmussen, delegata delle Samoa, a capo del gruppo Aosis delle nazioni insulari più vulnerabili di fronte agli impatti di cambiamenti climatici. La delegazione è entrata nell’aula in cui si svolgeva la seduta plenaria di approvazione del Global stocktake quando già scrosciavano gli applausi. Rasmussen si è quindi rivolta con queste parole ad al-Jaber: «Non abbiamo voluto interromperla, ma siamo un po’ confusi rispetto a quanto appena accaduto. Sembra che abbiate approvato il documento mentre i piccoli Stati insulari in via di sviluppo non erano presenti in sala. Stavamo lavorando duramente per coordinare i 39 piccoli Paesi insulari, colpiti in modo sproporzionato dai cambiamenti climatici, e quindi siamo arrivati in ritardo. Per quanto riguarda il paragrafo 28, siamo straordinariamente preoccupati che non rappresenti ciò di cui abbiamo bisogno. Temiamo in particolare che i punti “e” ed “h” ci possano potenzialmente fare regredire anziché avanzare. Il secondo punto in particolare ci appare come un elenco di scappatoie».

Cop28 aosis nazioni insulari
La rappresentante di Samoa e del gruppo Aosis delle nazioni insulari Anne Rasmussen, alla Cop28 di Dubai © UNclimatechage/Flickr

Qualora fossero stati in aula, i Paesi Aosis avrebbero bloccato l’approvazione? Avrebbero manifestato riserve ma concesso comunque il via libera? I negoziati si sarebbero protratti ulteriormente? Nessuno può saperlo. Ciò che è si sa è che la delegazione delle nazioni più in difficoltà a causa dei cambiamenti climatici ha posato le cuffie per le traduzioni simultanee con l’amaro in bocca e la paura nello stomaco. Che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha reagito senza entusiasmo, ricordando che «comunque l’era delle fonti fossili è finita, che a loro piaccia o no». Che fuori dalla plenaria la delegazione saudita è stata vista chiacchierare amabilmente con i componenti di quella cinese, tra grandi sorrisi e volti distesi. Al contrario, non soltanto al-Jaber ma anche, tra gli altri, il commissario europeo Wopke Hoekstra e l’inviato speciale degli Stati Uniti John Kerry hanno commentato con toni entusiastici.

Ma allora, in definitiva, il Global stocktake è un successo o un fallimento? La realtà è che non è, probabilmente, né l’una né l’altra cosa. E non soltanto perché frutto di un compromesso. A renderlo, in gran parte, un “nulla di fatto”, sono almeno tre fattori. 

Il primo riguarda il carbone: il Global stocktake non è riuscito a produrre avanzamenti concreti neppure sulla fonte fossile in assoluto più dannosa per il clima. Ci si è limitati a riprodurre la stessa formulazione della Cop26 di Glasgow del 2021: una “diminuzione” e non un’uscita. E soltanto per la quota di carbone unabated, ovvero privo di sistemi di cattura e stoccaggio della CO2.

La seconda ragione è legata alle tipologie di espressioni scelte in numerosi passaggi del testo, a cominciare dal transitioning away riferito alle fonti fossili. Benché sia indiscutibilmente positivo il fatto che queste ultime, per la prima volta, siano menzionate a chiare lettere in un testo dell’UNFCCC, quel riferimento a una “transizione” non può che risultare interpretabile. Starà al buon senso e alla buona volontà politica di ciascun governo tradurlo in qualcosa di concreto ed efficace. E visti i risultati finora raggiunti, non si può oggettivamente stare tranquilli. Né si può esultare, francamente, per – dopo 31 anni dal summit di Rio del 1992 e alla ventottesima Cop – aver osato nominare per la prima volta le fossili!

Il terzo motivo per cui il Global stocktake non cambierà probabilmente di molto le sorti della battaglia contro il riscaldamento è legato ai numeri. Climatici e finanziari. Come noto, la traiettoria verso la quale il mondo sta andando è estremamente lontana dall’obiettivo più ambizioso dell’Accordo di Parigi: limitare la crescita della temperatura media globale a 1,5 gradi centigradi, rispetto ai livelli pre-industriali. I differenti scenari, sulla base delle promesse dei governi, indicano che si andrà al di sopra dei 2,5 gradi. E ciò sempre che quegli impegni siano rispettati per intero. 

Per essere in linea con gli 1,5 gradi, le emissioni dovranno essere ridotte del 43% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019. Per ora continuano a crescere. E secondo una prima valutazione della paleoclimatologa francese ed ex vice-presidente dell’Ipcc, Valérie Masson-Delmotte, gli impegni contenuti nel Global stocktake valgono soltanto un -5%. 

Ma il principale problema del documento approvato alla Cop28 è legato alla mancanza di impegni finanziari conseguenti. Il mondo ricco non si può aspettare che i Paesi poveri e martoriati dagli impatti dei cambiamenti climatici,  di cui sono responsabili solo in minima parte, si accollino i costi della transizione da soli. Non sarebbe giusto, e in ogni caso non è possibile chiederlo. L’International Energy Agency ha stimato nello scorso mese di giugno che il totale di investimenti pubblici e privati per rendere i sistemi energetici mondiali in linea con l’Accordo di Parigi debba essere compreso tra 2.017 e 2.567 miliardi di euro – all’anno – di qui alla fine del decennio. Per il Sud del mondo è semplicemente impossibile fare fronte a cifre simili. Tanto più che queste nazioni continuano ad essere costrette a spendere per ripagare i propri debiti esteri circa il quintuplo di quanto possono stanziare per mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. 

Ciò nonostante, a Dubai i Paesi ricchi hanno evitato di mettere nero su bianco cifre, ad eccezione di alcuni impegni “spot” – e largamente insufficienti –  assunti da alcuni governi (come nel caso del fondo per il loss and damage, che però è legato alla riparazione delle perdite e dei danni, non alla mitigazione). Alla prossima Cop29, che si terrà a Baku, in Azerbaigian, ovvero in un’altra nazione petrolifera, la questione finanziaria sarà centrale. Esattamente come quest’anno lo è stato il Global stocktake. Ci si attende infatti l’approvazione del New Collective Quantified Goal on Climate Finance. Documento che dovrà, appunto, fissare con chiarezza le necessità finanziarie climatiche nella loro interezza. Perché finché il mondo continuerà ad incontrarsi ogni anno alle Cop, ma pompando migliaia di miliardi pubblici e privati nel settore delle fossili, tra investimenti, sottoscrizioni, sussidi e sovvenzioni, le cose non cambieranno.

Per la transizione servono prima di tutto capitali. Altrimenti anche il Global stocktake resterà una scatola vuota. Esattamente come il fondo per il loss and damage, per il quale sono stati promessi stanziamenti nell’ordine delle centinaia di milioni di dollari, quando ne serviranno più di 500 miliardi. All’anno. Senza la finanza, il clima della Terra non potrà essere salvato. E «il mondo – ha ricordato Guterres – non può permettersi ritardi, indecisioni o mezze misure».