Clima, al via la Cop29. Ma come facciamo a crederci ancora?
Dai dati climatici alla politica, fino alle notizie sui vertici della Cop29. Tutto sembra far credere che il summit sarà l’ennesimo fallimento
La speranza è di essere smentiti dai fatti. Ma l’avvicinamento alla Cop29, la ventinovesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, è desolante per quanto riguarda i dati scientifici, inquietante per il clima politico, ai limiti del ridicolo per le ultime notizie in arrivo dalla città che ospiterà il summit, Baku, capitale dell’Azerbaigian.
L’inchiesta di Global Witness sul capo della Cop29: «Vuole usare il summit per accordi sulle fossili»
La Cop29 di Baku sarà la seconda di fila ospitata da un petrostato, dopo la Cop28 di Dubai. E l’organizzazione non governativa Global Witness ha provato a smascherare le reali intenzioni del suo amministratore delegato, Elnur Soltanov (che è al contempo vice-ministro dell’Energia dell’Azerbaigian). I fatti, in breve: alcuni attivisti hanno contattato l’esponente governativo azero, spacciandosi per emissari di grandi gruppi dei settori petrolifero e del gas. La richiesta a Soltanov: agevolare accordi per lo sviluppo delle fonti fossili, in cambio di sponsorizzazioni per il summit.
Nella registrazione il dirigente sembra accettare di buon grado la proposta e afferma – pur dichiarando che il gas dovrebbe essere considerato una fonte di transizione – che in futuro una certa quantità di produzione di idrocarburi rimarrà «forse per sempre». I finti emissari di Global Witness sono riusciti perfino a farsi ricevere da un alto dirigente della compagnia petrolifera nazionale Socar, avviando discussioni su possibili opportunità per nuovi investimenti. Il tutto facilitato proprio da Soltanov, che nella registrazione, riferisce la Ong, dichiara: «Ci sono molte joint venture che potremmo creare. Socar commercia petrolio e gas in tutto il mondo, anche in Asia».
«L’Unfccc (la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul clima, che organizza le Cop, ndr) deve agire urgentemente per rendere puliti i negoziati sul clima. A partire dall’introduzione di un divieto di sponsorizzazioni da parte dell’industria dei combustibili fossili e scongiurando la presenza dei lobbisti del settore al summit», ha chiesto Global Witness alla luce dell’inchiesta.
I numeri allarmanti indicati dalla comunità scientifica
Difficile che ciò possa accadere nell’immediato. Le certezze sono invece quelle che ha indicato la comunità scientifica. Il mondo, ad oggi, è ancora lontanissimo dalla traiettoria che può consentirci di centrare il più ambizioso degli obiettivi dell’Accordo di Parigi del 2015. Ovvero limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 1,5 gradi centigradi, entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali.
La conferma è arrivata da un’analisi del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, che ha analizzato le promesse fin qui avanzate dai governi di tutto il mondo in termini di riduzione delle emissioni di gas d’effetto serra. Concludendo che ci porteranno, se va bene a 2,6 gradi di riscaldamento climatico. Se va male a 3,1. La tragedia di Valencia, per capirci, si è prodotta con “soli” 1,3 gradi di aumento della temperatura media globale.
A ciò si aggiunge la constatazione resa nota dal servizio di monitoraggio climatico europeo Copernicus relativa al 2024. Che si concluderà con ogni probabilità non solo come il più caldo di sempre, seguendo una serie di record consecutivi che ormai non fanno più notizia. Ma sarà il primo anno solare nel corso del quale avremo superato proprio la soglia degli 1,5 gradi.
Stati Uniti, Cina, Russia, Germania, Unione europea: chi può assumere la leadership climatica
L’azione climatica, insomma, è ancora infinitamente insufficiente. L’Unep ha spiegato che siamo talmente indietro che, per mantenere in vita l’obiettivo fissato dall’Accordo di Parigi occorrerebbe abbattere del 42% le emissioni globali entro il 2030. E del 57% entro il 2035. Ma chi potrebbe guidare questo percorso?
Il panorama politico, dal punto di vista climatico, rispetto a quando fu approvato l’Accordo stesso è semplicemente inquietante. In Europa la nuova Commissione manterrà la guida di Ursula von der Leyen, ma con un asse ben più marcatamente conservatore. Certo, proprio l’Ue è la macro-regione al mondo ad aver stabilito i progetti più ambiziosi in termini di riduzione delle emissioni climalteranti. Ma il piano-Draghi che proprio l’esponente tedesca giura di voler considerare un faro, dice a chiare lettere che le regole ambientali troppo stringenti sono un costo eccessivo e un fardello burocratico.
Negli Stati Uniti è stato appena rieletto un climatoscettico che ha dimostrato di non conoscere la materia. E che nel 2017 trascinò il suo Paese fuori dall’Accordo di Parigi (unico Paese al mondo a farlo). La Russia è impegnata in una guerra da anni, della quale (almeno per ora) non si vede la fine. La Cina ha avvertito già, in passato, che se le aziende americane si doteranno di standard ambientali poco stringenti, anche quelle cinesi dovranno adeguarsi. Pena essere messe fuori mercato.
In Germania è appena stata avviata una crisi di governo, in un contesto di continua ascesa dell’estrema destra. Sull’Italia di certo non si può contare. Chi rimane? La Spagna di Sanchez, il Brasile di Lula, il gruppo Aosis delle piccole nazioni insulari più vulnerabili di fronte agli impatti dei cambiamenti climatici. Troppo poco davvero per sperare, almeno sulla carta.
Certo, non si può escludere che, magari solo per salvare la faccia, i vertici azeri cercheranno di produrre un documento finale per lo meno decente al termine della Cop29. E come ogni anno, probabilmente pioveranno nuovi impegni, alleanze, partnership, promesse. Anche e soprattutto da quel mondo della finanza ultra-ricco che, se orientasse i propri capitali verso business sostenibili, potrebbe risolvere gran parte del problema da solo. Ma a nove anni dall’Accordo di Parigi, e a ventisette dal Protocollo di Kyoto, di fronte a una situazione come questa, rimanere ottimisti è davvero difficile.