Alla Cop30 di Belém «c’è aria di momentum»
Una prima bozza di accordo finale della Cop30 di Belém apre la porta, a sorpresa, ad una roadmap per l'abbandono dei combustibili fossili
«C’e aria di momentum. La presidenza ha deciso di accelerare». Mauro Albrizio, direttore degli affari europei di Legambiente, è uno storico osservatore dei negoziati sul clima delle Nazioni Unite. Lo raggiungiamo poche ore dopo la pubblicazione di una prima bozza di accordo da parte della presidenza della Cop30 di Belém. Si tratta della prima vera grande novità dal summit in corso in Brasile, ed ha colto parzialmente di sorpresa gli osservatori.
Nel documento sono ancora evidenziate molte opzioni diverse e opposte, e la strada per un accordo è ancora lunga. Ma la notizia è che sembra esserci uno spiraglio aperto per i due obiettivi più ambiziosi tra quelli sul tavolo: una roadmap per l’abbandono delle fonti fossili e la triplicazione dei fondi per l’adattamento nel Sud globale.
La Mutirão decision: il cuore politico della Cop30
Nella procedura dei negoziati sul clima delle Nazioni Unite, sta al Presidente – nominato dal Paese ospitante, in questo caso il Brasile – fare sintesi tra le posizioni delle diverse Parti, cioè gli Stati. Per arrivare a questa sintesi, la presidenza lavora a bozze all’inizio molto vaghe e via via più dettagliate, fino ad una versione finale che viene votata da tutte le nazioni presenti in una sessione plenaria. Quella diffusa martedì è la prima di queste bozze e, in modo un po’ irrituale, è divisa in due blocchi. Il primo, battezzato Mutirão decision (mutirão significa sforzo congiunto in portoghese) dovrebbe contenere i temi più spinosi, e sembra essere il vero testo politico della Cop30. Il secondo pacchetto sarà invece dedicato alle questioni più tecniche e sulle quali c’è già un accordo maggiore. Assieme, formano quello che i negoziatori hanno iniziato a chiamare Belém package.
Tutta l’attenzione si è inevitabilmente rivolta verso la Mutirão decision. Dentro ci sono le diverse proposte presentate dai governi su quattro punti, quelli che fin dall’inizio la presidenza aveva indicato come più polarizzanti. Il primo è la reazione ai Nationally Determined Contributions (Ndc), gli impegni relativi alla transizione ecologica presentati quest’anno dagli Stati. C’è un diffuso consenso sulla loro insufficienza, e alcune Parti – ad esempio le piccole nazioni insulari, i Paesi meno sviluppati e parte di Unione europea e America Latina – vorrebbero individuare dei modi per ridiscuterli nel breve termine.
Finanza, commercio e trasparenza: i nodi più divisivi
Il secondo punto è la finanza per l’adattamento nel Sud globale, cioè i capitali necessari ai Paesi più poveri per prepararsi alle conseguenze della crisi climatica. Il G77, il blocco negoziale che comprende Africa, America Latina e buona parte dell’Asia, vorrebbe che si triplichino gli stanziamenti attuali, fissati intorno ai 40 miliardi di dollari all’anno. I Paesi ricchi, che dovrebbero garantire quei flussi di denaro, ritengono la stima eccessiva.
Il terzo punto tra quelli affrontati dalla Mutirão decision è relativo al commercio. Le nazioni più industrializzate del G77, con il supporto molto vocale della Cina, chiedono che ci si impegni ad abolire quelle che loro chiamano «misure commerciali unilaterali». Il vero nemico è il Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam), un dazio climatico imposto dall’Unione europea sui prodotti importati da Paesi che hanno regolazioni emissive meno stringenti.
Infine, c’è la questione della trasparenza. Ovvero, come misurare l’avanzamento della transizione. Benché non sia citata esplicitamente, la risposta alla questione della trasparenza e all’insufficienza degli Ndc potrebbe essere una roadmap per l’abbandono del fossile.
Il momentum della roadmap per uscire dai combustibili fossili
In un articolo di ieri avevamo spiegato di cosa si tratta. In sintesi, la ministra dell’ambiente brasiliana Marina Silva e il presidente Lula Ignacio da Silva hanno proposto di partire dall’esito della Cop28 di Dubai del 2023, dove ci si accordò su una generica necessità di «”transitare al di fuori” dei combustibili fossili», e affiancarle un piano. La notizia è che l’idea di iniziare quantomeno a parlare di questo piano – che a Belém tutti definiscono appunto roadmap – sta conquistando sempre più seguito.
Secondo il Global Strategic Communication Council (Gscc), una delle realtà indipendenti più ascoltate alle Cop, 82 Paesi avrebbero espresso formalmente o informalmente appoggio alla proposta brasiliana. In una conferenza stampa all’interno della sede negoziale, alcune delle nazioni promotrici hanno accelerato sull’iniziativa. Tra i presenti il ministro del net-zero britanico Ed Miliband, la colombiana Irene Veléz, il tedesco Steffi Lemke, la rappresentante delle isole Marshall Tina Stege. Si tratta di una coalizione plurale sia dal punto di vista geografico e dell’allineamento geopolitico, sia dal punto di vista ideologico.
Una coalizione plurale che spinge per l’accordo
Che in pochi giorni una proposta nata come marginale sia andata così avanti è un fatto degno di nota. Rimane la contrarietà esplicita dei Paesi arabi dipendenti dalle esportazioni di idrocarburi, ma – sempre secondo il Gscc – anche un petro-Stato come la Russia avrebbe aperto all’idea. «Se fosse così, significa che la Cina è della partita, e sta aiutando il Brasile a conquistare i Paesi del blocco Brics», ci dice Jacopo Bencini, presidente dell’Italian Climate Network ed esperto di diplomazia climatica.
La maggioranza dei grandi Paesi europei – Germania, Francia, Spagna – sta lavorando con la presidenza brasiliana per l’inserimento della roadmap nel documento finale. Alla conferenza stampa non era però presente l’Italia, che sembra avere una posizione attendista. Il ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin, da due giorni a Belém, ha risposto ad una domanda di Valori.it spiegando che l’Italia appoggia la roadmap, «ma dipende da cosa c’è dentro».
Cosa contiene davvero la roadmap (e perché conta)
A cosa debba assomigliare questa roadmap, in ogni caso, non è chiaro. Difficilmente conterrà – se venisse approvata, passaggio non scontato – delle date precise per la dismissione di petrolio, gas e carbone. Più probabilmente potrebbe contenere degli impegni generici, un organo con il compito di dettagliare ulteriormente il piano o – riprendendo una proposta fatta dalla Colombia – la possibilità di un gruppo di volenterosi che si doti di un cronoprogramma più ambizioso.
Quanto impatto avrebbe un risultato simile, ammesso compaia davvero nella decisione finale? Gli osservatori più ottimisti insistono sul cambio di prospettiva nel dibattito. Per decenni i negoziati delle Nazioni Unite non hanno mai menzionato direttamente i combustibili fossili, per via dell’opposizione dei Paesi produttori. Un paradosso, considerando che petrolio, gas e carbone sono responsabili del 75% delle emissioni climalteranti. Questo tabù venne rotto alla Cop28 di Dubai e ora, è il ragionamento, si fa un passo ulteriore accordandosi sul loro abbandono. I critici, al contrario, ricordano come un impegno senza date o indicatori misurabili è facile da ignorare. Specie in un contesto in cui le Nazioni Unite si affidano alla buona fede dei governi, non avendo strumenti sanzionatori, e con gli Stati Uniti di Donald Trump che boicottano il summit e, a prescindere, non ne rispetteranno gli esiti.
Il cubo di Rubik dei negoziati: Cina, dazi e adattamento
«C’è un dato nuovo: la Cina sembra uscita allo scoperto», commenta ancora Mauro Albrizio. Il riferimento è a un’intervista rilasciata dall’inviato speciale per il clima cinese Liu Zhenmin alla testata Politico Europe. Nel corso della conversazione col giornalista, Zhenmin attacca la decisione di Trump di abbandonare l’Accordo di Parigi sul clima e chiede all’Unione europea più ambizione. La lettura che ne fa Albrizio, come altri osservatori, è che Pechino voglia esercitare pressione sull’Europa su alcuni dossier per lei spinosi. In cambio, potrebbe dare il suo assenso alla roadmap.
Per l’Unione europea e il Regno Unito, il tema spinoso per l’eccellenza è la finanza. La Mutirão decision parla infatti anche del nuovo obiettivo per la finanza per l’adattamento: soldi che vanno dal Nord al Sud globale per permettere ai Paesi cosiddetti in via di sviluppo di adattarsi al clima che cambia. Le nazioni riceventi vorrebbero triplicare l’impegno attuale, arrivando a 120 miliardi di dollari annui. Le nazioni contribuenti, come quelle europee, pensano a cifre molto minori. In ogni caso, secondo l’Adaption Gap Report del programma ambientale delle Nazioni Unite, i soldi in circolo sul tema sono un dodicesimo del necessario.
Il ruolo della presidenza brasiliana nelle prossime mosse
La Cina chiede all’Unione europea anche di rivedere le sue tasse frontaliere sui prodotti prodotti emettendo oltre i limiti continentali – il Cbam che nominavamo prima. «Si tratta di una battaglia che la Cina conduce per procura, per proporsi come leader a nazioni che ne fanno una priorità come il Vietnam. Ma non pensa davvero di vincerla, l’Unione non cederà», spiega ancora Bencini. La strada per l’accordo che si profila è composta, come spesso accade in questo genere di negoziati, da una serie di scambi. Se l’Unione europea accettasse di rivedere a rialzo i suoi impegni sull’adattamento, i Paesi in via di sviluppo riuniti nel G77 potrebbero acconsentire alla roadmap.
Il governo di Xi Jinping e il Partito Comunista Cinese dal canto loro potrebbero rivendicare questa come una propria vittoria di fronte ai governi e alle opinioni pubbliche del cosiddetto Sud globale, rendendo così accettabile un non-risultato sul Cbam. E avrebbero la forza di convincere le nazioni più recalcitranti, come Russia e Arabia Saudita. Magari diluendo ulteriormente il contenuto della roadmap, o trovandogli un nome e una definizione giuridica meno vincolanti. Il Brasile di Lula porterebbe così a casa una vittoria diplomatica importante, e i Paesi più ambiziosi dal punto di vista climatico – come la Colombia di Gustavo Petro e alcune nazioni europee – potranno vantare un colpo di coda della diplomazia climatica e uno schiaffo in faccia al negazionismo trumpiano.
Cosa aspettarsi ora: le incognite verso l’accordo finale
Che questo cubo di Rubik si risolva, però, è tutto fuorché scontato. Non solo i Paesi storicamente più conservatori come quelli membri del cartello petrolifero Opec non hanno forti incentivi a trattare, ma anche le nazioni schierate per la roadmap – come il Brasile – sono spesso impegnate nell’aumento, non nella diminuzione, delle loro attività estrattive o di consumo di fossili.
L’aumento dei fondi per l’adattamento è ancora più complesso. Si tratterebbe principalmente di finanza pubblica – perché raramente i privati possono trarre profitto dalla prevenzione di alluvioni o delle ondate di caldo. E gli Stati europei stanno in maggioranza tagliando i fondi per la cooperazione – una delle conseguenze del piano di riarmo – mentre gli Stati Uniti di Donald Trump li hanno direttamente cancellati. La presidenza brasiliana, in mano al diplomatico di carriera André Corrêa do Lago, è considerata da tutti gli osservatori molto abile. Lo sarà abbastanza da trovare una quadra accettabile per quasi 190 nazioni?




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