Coronavirus & crisi: l’insostenibile pesantezza dei fattori macro

Sguardo settimanale sulla corona-crisi. Prima puntata condizionata dagli elementi macro: tra borse, disoccupazione, petrolio ed eurobond

Matteo Cavallito
I dati macroeconomici descrivono una crisi sempre più grave. Foto: Pexels Free to use
Matteo Cavallito
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La crisi vive di metafore, specie quando i giornalisti si annoiano. Il che di questi tempi accade spesso. La pallacanestro, parlando di cose serie, ha fatto il suo esordio olimpico ai Giochi di Berlino del 1936. Gli Stati Uniti vinsero il torneo, ovviamente, ma la finale contro il Canada fu tutt’altro che spettacolare: 19-8 per gli USA con un patetico parziale di 4-4 nel secondo tempo. Il fatto è che si giocava all’aperto, su un campo in erba e con una pioggia torrenziale a complicare il tutto. La morale è semplice: quando le condizioni macro sono eccezionalmente sfavorevoli far rimbalzare qualcosa diventa quasi impossibile. Vale per una palla da basket. E vale soprattutto per la maggior parte delle asset class presenti sul mercato.

Borse e mercati: «la crisi più rapida della storia»

Nello spazio di appena 23 sedute, il mercato azionario globale ha bruciato un terzo del suo valore, sottolinea Sherban Tautu, Head of Global Investment Solutions di Banque SYZ: «Non si era mai visto nulla di simile, ecco perché quella di marzo 2020 può essere considerata la più rapida crisi dei mercati finanziari della storia». La risposta dei regolatori è stata pronta quanto mastodontica: la Fed ha azzerato i tassi e ha lanciato un QE illimitato; la BCE ha riavviato gli acquisti calmando gli animi sul mercato del debito. Gli investitori, da quel momento, hanno ripreso coraggio e gli indici hanno invertito la rotta. Ma il rimbalzo, per ora, è stato limitato.

Rimbalzo parziale

Nelle scorse settimane alcuni veterani di Wall Street come il presidente di Ariel Investments, John Rogers, e il numero uno della società Miller Value Partners, Bill Miller, avevano prefigurato una grande onda rialzista. L’idea era semplice: comprare asset ribassati per approfittare in seguito dell’inevitabile boom associato alla liquidità ex novo generosamente concessa dalle banche centrali. Una replica del 2009? Chissà. Gli indici americani per ora hanno reagito abbastanza bene; gli omologhi europei decisamente meno. Ma la domanda, quasi filosofica, si impone inevitabilmente: fino a quando le condizioni monetarie potranno compensare al rialzo i terrificanti dati macro della cosiddetta economia reale?

Reddito universale contro la disoccupazione

Jorge Mario Bergoglio non è un teologo della liberazione ma è notoriamente un pontefice progressista. Ed è forse l’unico, tra i capi di Stato e di governo del Pianeta a pronunciarsi con continuità contro le storture del capitalismo senza per questo cedere alle scivolose tentazioni del populismo. A Pasqua, in una lettera inviata al quotidiano Avvenire, ha rilanciato la proposta del reddito universale, tema niente affatto scontato. Papa Francesco non è un economista. Ma forse ha centrato il punto: nel mondo post Covid la recessione rischia di essere prolungata e la disoccupazione suscita un allarme globale.

Crisi? No, grande depressione

I dati, in questo senso, fanno paura. Goldman Sachs prevede che nel secondo trimestre dell’anno il Pil delle economie avanzate faccia segnare un declino pari al 35% nel confronto trimestrale e all‘11% su base annuale. «Una contrazione quattro volte superiore al record precedente stabilito nel 2008» nota la banca, «che sta già causando un’implosione del mercato del lavoro». Negli Stati Uniti, prosegue Goldman, il tasso di disoccupazione potrebbe raggiungere presto quota 15%, il livello più alto del dopoguerra. La crisi occupazionale è evidente anche in Europa. Nel Regno Unito, scrive il Telegraph, il Covid si è già mangiato i posti di lavoro creati negli ultimi cinque anni. Nell’Eurozona il fenomeno potrebbe essere molto variabile con picchi del 17% e del 23% in Italia e in Spagna.

Il petrolio non scalda un mercato insensibile

I dati macro fotografano la portata della crisi e sono probabilmente alla base della grande delusione patita dai produttori di petrolio. Venerdì scorso Usa, Russia e Arabia Saudita hanno raggiunto uno storico accordo per un clamoroso taglio alla produzione. Il mercato si prepara a fare a meno di 9,7 milioni di barili al giorno ma le quotazioni del greggio sono calate ancora con il Brent sotto la soglia dei 30 dollari e il WTI che nella giornata di mercoledì è stato scambiato a quota 19.

L’interpretazione è scontata: i grandi produttori possono rimediare all’eccesso di offerta ma lo shock di domanda è un’altra faccenda. «Anche supponendo che le restrizioni sui movimenti vengano allentate nella seconda metà dell’anno» ha scritto l’Agenzia Internazionale per l’Energia, «prevediamo che la domanda globale di petrolio nel 2020 diminuirà di 9,3 milioni di barili al giorno rispetto al 2019, cancellando quasi un decennio di crescita». Ad aprile la richiesta di greggio su scala mondiale dovrebbe contrarsi di 29 milioni di barili al giorno scendendo ai livelli del 1995.

 

Dombrovskis apre agli eurobond?

Eurobond sempre al centro del dibattito. Martedì, in un’intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt, il vice-presidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis ha prefigurato la nascita di un fondo per la ricostruzione europea da 1,5 trilioni di euro. Il maxi intervento anti-crisi dovrebbe essere finanziato con emissioni di titoli garantiti dagli Stati membri. Debito comune europeo in vista? Il giornalista ha incalzato l’interlocutore ma l’ex premier lettone ha glissato con un memorabile esercizio di retorica.

«Quando si parla di coronabond o di eurobond persone diverse immaginano cose molto diverse. Abbiamo bisogno prima di tutto di una definizione chiara. La Commissione UE non propone coronabond e per questo non li definiamo» ha dichiarato.