Attivismo e giustizia climatica: se il diritto alla protesta diventa un reato

Alla Cop30 emerge un allarme globale: in molti Paesi il diritto alla protesta viene represso e l’attivismo ambientale è sempre più criminalizzato

Marica Di Pierri – A Sud
© Kiara Worth/UN Climate Change
Marica Di Pierri – A Sud
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La Cop dei popoli. La Cop della gente. È il linguaggio con cui la presidenza brasiliana ha caratterizzato sin dal principio questa conferenza climatica, di ritorno dopo anni nel vitale subcontinente latinoamericano. Tra l’effettivo ritorno di una grande partecipazione popolare alla Cop, l’impressionante dispiegamento di militari e una situazione globale che indica la crescente criminalizzazione di chi protegge ambiente e territori, il tema dell’attivismo e del suo ruolo rimane nodale nel percorso verso un’azione climatica efficace e inclusiva.

Difendere il clima diventa un reato: il nodo alla Cop30

Il successo dell’azione climatica non può prescindere dalla difesa di attivisti, leader indigeni e sindacali, organizzazioni e giornalisti in prima linea nella difesa della giustizia climatica. Questo il messaggio lanciato domenica 16 novembre dai movimenti riuniti nella Cupula dos Povos al presidente della Cop30 André Corrêa do Lago. La denuncia della crescenti minacce subite dagli “Environmental and Human Rights defenders” e l’urgenza di proteggerli è infatti una delle 15 proposte che rappresentano il distillato delle richieste dei movimenti sociali a questa Cop. E che compongono la piattaforma politica nella Carta dos Povos, consegnata ieri dai movimenti nelle mani di Corrêa do Lago e delle ministre Marina Silva e Sonia Guajajara. 

L’incontro arriva in giorni concitati a Belém e coglie tutte le contraddizioni tra la narrazione della partecipazione popolare come cifra di questa conferenza e la protezione di dinamiche negoziali che preferiscono non essere disturbate. Se da un lato, infatti, la presidenza brasiliana ha incontrato i movimenti e dichiarato che porterà le istanze sociali nelle stanze in cui si decide, dall’altro dopo le proteste dei popoli indigeni dei giorni scorsi è arrivata un’allarmante lettera del Segretariato dell’Unfccc che esorta il Brasile a intensificare controllo e presenza militare. Contro la richiesta è stata prontamente inviata a Simon Stiell una lettera aperta, firmata in 24 ore da oltre 175 organizzazioni, per chiedere una presa di posizione pubblica che riconosca e difenda il diritto alla protesta.

Criminalizzazione dei difensori dell’ambiente: una tendenza globale

A livello globale manifestazioni, proteste e azioni di disobbedienza civile da parte di leader indigeni e attivisti climatici sono sempre più frequentemente bersaglio di pratiche repressive, con minacce all’integrità fisica, e normative che mirano a silenziare le voci critiche nei confronti di governi e aziende. Anche nel dibattito politico e nel discorso mediatico l’attivismo viene spesso demonizzato con l’intento di contrarre il diritto di critica. Questo processo non conosce confini geografici, ma assume sfumature diverse a seconda delle regioni e dei contesti politici.

Il rapporto di Global Witness pubblicato a settembre documenta che a livello globale, il fenomeno sta assumendo dimensioni preoccupanti. I difensori ambientali vivono in un contesto di crescente pericolo, stretti tra interessi economici estrattivi, mancanza di protezione efficace e persistenza dell’impunità. La ong ha censito nel 2024 146 uccisioni o sparizioni a lungo termine in tutto il mondo. L’82% di questi casi è avvenuto in America Latina. I gruppi più vulnerabili risultano essere popolazioni indigene e piccoli agricoltori.

Africa: le donne difensore e la repressione crescente

In Africa, le donne che lottano per la giustizia ambientale e sociale affrontano sfide enormi. Secondo un recente rapporto di Natural Justice, le attiviste africane sono tra le più vulnerabili a causa di leggi oppressive, violenze fisiche e sessuali e mancanza di protezione da parte delle istituzioni. La criminalizzazione delle attiviste non è solo un attacco alla loro libertà di espressione, ma anche un tentativo di silenziare la voce di chi lavora per proteggere le risorse naturali in contesti di grave sfruttamento ambientale.

Il rapporto sottolinea come, le donne vengono ignorate dalle politiche di protezione internazionale e nazionale. E si trovano a dover affrontare non solo la repressione, ma anche il pregiudizio di genere che le rende vulnerabili sia come donne che come difensori dei diritti umani.

L’Asia: la repressione delle proteste come strategia politica

In Asia, la criminalizzazione dei difensori dell’ambiente ha assunto diverse forme. Un documento di APNED evidenzia che l’uso della legge come strumento di repressione contro gli attivisti è ormai una strategia consolidata in molti Paesi asiatici.

In Indonesia il governo ha utilizzato leggi contro la sicurezza nazionale per reprimere chi si oppone alle grandi infrastrutture e alle politiche minerarie. In Paesi come Malaysia, India e Filippine, le ong ambientaliste e i difensori dei diritti umani sono stati etichettati come “nemici dello Stato” e sono soggetti a intimidazioni e arresti arbitrari. Questo utilizzo improprio delle leggi è un fenomeno che si estende a tutta la regione.

Brasile: il caso delle terre indigene e la criminalizzazione delle proteste

Il Brasile, con la sua lunga storia di conflitti legati alla terra e all’ambiente, è uno dei Paesi più emblematici per quanto riguarda la criminalizzazione dell’attivismo. Il Comitê de Direitos Humanos denuncia l’incremento delle violenze contro i difensori dei diritti umani, in particolare quelli che lottano per la protezione delle terre indigene.

Qui la repressione non si manifesta solo sul piano legale, ma anche su quello fisico. I difensori vengono spesso aggrediti, minacciati e uccisi per il loro impegno. La connivenza tra governi locali e multinazionali rende estremamente difficile per gli attivisti fare valere i loro diritti. E l’impunità è spesso la regola.

Colombia: criminalizzazione, razzismo e impunità strutturale

Anche quest’anno la Colombia si conferma al primo posto nella statistica di Global Witness, con 48 casi di difensori della terra e dell’ambiente uccisi o scomparsi nel 2024. Questo numero rappresenta quasi un terzo dei casi mondiali. Uno dei fattori aggravanti è l’impunità dilagante: solo il 5,2% degli omicidi di leader sociali e difensori è stato perseguito.

Secondo la ong Ilex Accion Juridica, le popolazioni afro-colombiane e indigene sono particolarmente vulnerabili alla criminalizzazione. Spesso accusate ingiustamente di terrorismo. La discriminazione razziale e l’uso delle leggi come strumento di repressione sono questioni centrali per i difensori colombiani. Che combattono non solo contro le politiche ambientali dannose, ma anche contro un sistema che li considera cittadini di seconda classe. 

La criminalizzazione dell’attivismo ambientale in Italia

Se guardiamo oltre le minacce all’integrità fisica, il numero di ritorsioni legali è ben più elevato e si diffonde oltre il territorio latinoamericano. Negli ultimi anni sta emergendo anche nelle cosiddette “democrazie consolidate”, come in Europa e negli Stati Uniti.

In Italia la criminalizzazione dell’attivismo ambientale sta diventando un fenomeno pervasivo per la vita democratica e desta allarme. Il processo di restringimento delle libertà democratiche è iniziato già anni fa, ma con il governo Meloni ha subito una decisa accelerazione. Con norme come il decreto eco-vandali nel 2024 e il decreto sicurezze nel 2025 – entrambi convertiti in legge – sono stati istituiti nuovi reati penali, aggravanti e inasprite le pene e le sanzioni amministrative per chi partecipa a proteste non violente, come i blocchi stradali e le azioni di disobbedienza civile.

Secondo Human Rights Watch, oltre il 50% delle proteste ambientali in Italia è stato oggetto di repressione violenta o di procedimenti legali, con l’uso distorto di strumenti amministrativi come il foglio di via e il Daspo urbano. Queste misure, che limitano la libertà di movimento e la possibilità di manifestare, rischiano di avere un effetto dissuasivo sulle mobilitazioni e limitare i diritti costituzionali.

Nel contesto europeo, l’Italia ha registrato anche un preoccupante aumento delle Slapp (strategic lawsuits against public participation), le querele temerarie da parte di rappresentanti politici o imprese. Questa tendenza, che va oltre la semplice criminalizzazione, è un attacco diretto alla libertà di espressione e al diritto di manifestare al fine di intimidire. 

Verso un’alleanza globale per proteggere il diritto alla protesta

Il contesto globale mostra che la criminalizzazione dell’attivismo non è solo una minaccia per i difensori dell’ambiente, ma è un fattore di rischio per la tenuta democratica dei singoli Paesi e per l’inclusività e pluralità dei contesti internazionali. La Cop30 e la Cupula dos Povos di Belèm hanno fornito occasioni preziose per mettere in relazione le sfide che i movimenti ecologisti, indigeni e climatici affrontano nelle diverse regioni del Pianeta. In questo scenario, costruire alleanze internazionali e promuovere politiche di protezione per i difensori è un passo imprescindibile non solo verso la giustizia climatica, ma verso società che considerino il dissenso elemento essenziale per la crescita democratica.

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