Criptovalute e (de)localizzazione dei data center: abbiamo un problema di risorse?

Criptovalute e IA fanno crescere i data center, con consumi record di energia e acqua che mettono a rischio risorse locali e giustizia ambientale

L'immagine è stata realizzata dalla redazione di Valori.it utilizzando Midjourney

Negli ultimi anni, la domanda globale di infrastrutture digitali per sostenere criptovalute e intelligenza artificiale ha conosciuto una crescita esponenziale, provocando una “fame insaziabile” di energia elettrica e risorse idriche. Questi data center sono spesso delocalizzati in aree lontane dagli utenti e dalle società che traggono i maggiori profitti, generando un evidente squilibrio. Mentre le multinazionali incassano guadagni rilevanti, le comunità locali subiscono impatti ambientali e sociali significativi. Osserviamo dunque questo disallineamento, approfondendo impatti, casi concreti e differenti approcci geopolitici, su una questione decisamente complessa e globale.

Il boom dei data center e la loro “fame (e sete) insaziabile”

Nel 2024, il consumo energetico globale dei data center ha superato i 400 Twh, con una crescita del 12% annuo, secondo la Agenzia internazionale dell’energia (Iea). Nel 2030 questa compomonente del consumo dovrebbe raddoppiare. 

In questi dati l’intelligenza artificiale rappresenta quasi la metà, poiché l’addestramento e il funzionamento di modelli avanzati come GPT o architetture similari assorbono potenze elevate, superando il fabbisogno attuale del mining di criptovalute, che a livello globale si attesta sui 176 Twh annui, più di Paesi come Polonia o Argentina, con emissioni stimate attorno a 98 Mt di CO2/anno. Nel confronto, ricordiamo che il mining si basa su calcoli ripetitivi e ad alta intensità computazionale, mentre l’IA si distingue per i picchi di calcolo e la complessità delle operazioni di training.

Questi “giganti silenziosi” della tecnologia consumano così tanto per una ragione fondamentale: il raffreddamento. I processori che eseguono calcoli complessi, sia per il proof-of-work del bitcoin sia per l’addestramento di reti neurali profonde, generano calore intenso. I server devono operare a temperature controllate per evitare malfunzionamenti e degradazione delle prestazioni. È qui che entra in gioco il consumo idrico, attraverso i sistemi di raffreddamento evaporativo utilizzano milioni di litri d’acqua ogni giorno. A titolo di esempio, un data center di Meta nella contea di Newton consuma 200mila litri d’acqua al giorno, e i nuovi centri  possono arrivare a superare tale consumo in aree già colpite da siccità. Complessivamente, milioni di litri d’acqua sono impiegati quotidianamente a livello globale per raffreddare queste infrastrutture, ponendo sotto pressione risorse idriche scarse e fondamentali per le economie locali.

La combinazione di altissimo consumo elettrico e idrico caratterizza la doppia sfida della sostenibilità: diminuire l’impatto attraverso nuovi sistemi di raffreddamento e lavorare a una gestione intelligente delle risorse.

Il costo locale della tecnologia globale 

L’impatto locale sull’acqua è particolarmente grave in regioni geografiche dove questa risorsa è già scarsa o compromessa, come Oregon, Irlanda o New York. Qui i grandi data center sottraggono acqua potabile e riciclata, compromettendo usi agricoli e consumi domestici. Le comunità denunciano aumenti dei prezzi, limitazioni sulle forniture e danni all’ambiente derivanti da queste strutture. La pressione è aggravata dalle emergenze climatiche e dalla crescente competizione distributiva per le risorse idriche.

Sul fronte energetico, in aree rurali degli Stati Uniti, in Islanda e in Kazakistan, data center per cripto-mining hanno creato crisi di rete con blackout e rincari, poiché richiedono energia continua e massiccia, spesso a discapito degli utenti locali. Questi episodi hanno portato a forti proteste e controversie politiche, evidenziando come la delocalizzazione di impianti così energivori possa oltrepassare la capacità di gestione delle infrastrutture esistenti. Il risultato è un vero e proprio squilibrio tra i benefici economici concentrati nelle mani delle società tecnologiche e i costi sociali e ambientali scaricati sulle comunità locali.

Tali casi sottolineano la necessità di una attenta valutazione di impatti e politiche di sostenibilità che tengano conto del territorio e delle risorse locali.

Geopolitica dei data center: chi decide la delocalizzazione?

La delocalizzazione dei data center non segue la logica dell’utente finale, ma criteri puramente economici e di opportunità

Le big del tech scelgono le location in base a tre fattori principali: 

  • il costo dell’energia;
  • le condizioni climatiche;
  • il contesto normativo-fiscale. 

Questa triade determina una geografia dell’estrazione digitale che spesso penalizza le aree più vulnerabili

Il costo e la disponibilità dell’energia rappresentano il fattore dominante. I data center cercano regioni con energia idroelettrica o altre fonti rinnovabili a basso costo, non per ragioni ambientali primarie ma per ridurre i costi operativi. Stati americani come Washington e Oregon, con le loro dighe idroelettriche, o l’Islanda con la geotermia, offrono tariffe competitive che attraggono operatori cripto e giganti dell’IA. Tuttavia, questa energia “economica” è spesso sussidiata dalle comunità locali attraverso accordi fiscali speciali o è sottratta a usi alternativi più socialmente utili.

Il clima gioca poi un ruolo strategico. Temperature esterne più basse riducono significativamente i costi di raffreddamento. Questo spiega la concentrazione di data center nei Paesi nordici (Svezia, Norvegia, Finlandia) e nelle regioni più fredde del Nord America. Ironicamente, mentre il Pianeta si riscalda a causa delle emissioni di CO2, alle quali i data center contribuiscono indirettamente quando utilizzano energia da fonti fossili, le aziende tech cercano paradisi termici sempre più a nord, in un circolo vizioso geografico.

Le normative fiscali e ambientali completano il quadro. Giurisdizioni con regolamentazioni blande o assenti diventano attraenti per operatori che vogliono evitare controlli stringenti sul consumo idrico o sulle emissioni. Alcuni Stati americani offrono esenzioni fiscali decennali ai data center in cambio di promesse di creazione di posti di lavoro che spesso si rivelano esigue. Un data center moderno, infatti, richiede relativamente pochi dipendenti permanenti rispetto alla sua impronta ambientale.

Il disallineamento geografico risultante è stridente. Le società della Silicon Valley, con sede a San Francisco o San Jose, generano profitti mentre i loro data center prosciugano pozzi in Arizona o consumano energia in Oregon. Gli investitori di bitcoin che operano da New York o Londra vedono i loro wallet valorizzarsi mentre comunità rurali in Texas o Kazakistan subiscono blackout. Questa “colonizzazione digitale” separa nettamente chi beneficia economicamente dalla tecnologia e chi ne sopporta i costi ambientali e sociali.

Le decisioni di localizzazione sono prese nei boardroom delle multinazionali, non nei consigli comunali delle cittadine ospitanti, spesso con accordi di non divulgazione che impediscono alla popolazione locale di conoscere l’effettivo impatto delle strutture fino a quando non è troppo tardi per opporsi. Ed è solo l’inizio, considerando che ad esempio in Congo è direttamente l’Unione europea a finanziare miniere di bitcoin localizzate nella foresta pluviale, sfruttando progetti che inizialmente avevano come obiettivo la riduzione della povertà anche portando l’energia elettrica nelle case.

Approcci globali al consumo di risorse

L’approccio occidentale è spesso incentrato sulla narrazione della sostenibilità, con la tendenza a delocalizzare i data center in regioni che offrono fonti di energia “verde”. Tuttavia, quarant’anni di esperienza indicano come questo modello spesso si traduca in pratiche di mero greenwashing, poiché gli impatti sulle comunità locali sono significativi e molti attivisti denunciano lo sfruttamento delle risorse con poca attenzione alla giustizia ambientale.

Diverso è l’approccio cinese, dove il controllo statale è più stringente. Il mining di bitcoin è stato vietato e le attività sono state forzatamente spostate o chiuse. La Cina investe massicciamente in data center per IA, con strutture statali progettate per dominare il settore e sostenute da un mix di energia rinnovabile in crescita. Tale modello mira a un controllo strategico sia tecnologico che ambientale, ma non è privo di problemi, come sovracapacità e inefficienza di alcuni data center. La Cina dunque si distingue per una più decisa pianificazione centralizzata rispetto a quanto accade nei Paesi occidentali e nelle loro sfere di influenza. 

Conclusioni e prospettive future 

La tensione tra innovazione tecnologica e sostenibilità locale rappresenta una delle sfide cruciali del nostro tempo. Il conflitto non è inevitabile ma è il risultato di scelte economiche e politiche precise, che privilegiano i profitti immediati rispetto alla tutela delle risorse comuni. L’attuale modello di delocalizzazione dei data center perpetua un’ingiustizia ambientale sistemica, dove i benefici economici si concentrano in pochi hub finanziari e tecnologici mentre i costi ecologici si distribuiscono su comunità periferiche e spesso prive di potere contrattuale. 

Esistono soluzioni tecniche emergenti che potrebbero mitigare il problema. Il raffreddamento a liquido per immersione (immersion cooling) riduce drasticamente il consumo idrico eliminando l’evaporazione, pur richiedendo investimenti iniziali significativi. Alcuni data center stanno sperimentando il riuso del calore residuo per il teleriscaldamento urbano, trasformando uno spreco energetico in una risorsa per le comunità circostanti. Data center modulari e distribuiti, anziché mega-strutture centralizzate, potrebbero ridurre l’impatto concentrato su singole località. Tuttavia, queste innovazioni rimangono marginali finché il calcolo economico immediato favorisce approcci tradizionali meno costosi.

La necessità di una regolamentazione forte ed efficace appare sempre più urgente. Non basta chiedere alle aziende di usare energia “verde”, occorre proteggere le risorse idriche locali con limiti vincolanti, garantire la stabilità delle reti elettriche impedendo che singoli attori privati ne monopolizzino la capacità, e assicurare che le comunità ospitanti abbiano voce in capitolo prima che i progetti vengano approvati. Alcuni elementi chiave di una governance adeguata includerebbero: 

  • valutazioni d’impatto ambientale obbligatorie e pubbliche prima dell’autorizzazione di nuovi data center;
  • quote massime di consumo idrico ed energetico proporzionate alle capacità locali; 
  • meccanismi di compensazione diretta per le comunità che ospitano infrastrutture ad alto impatto;
  • trasparenza totale sui consumi effettivi, attualmente spesso coperti da accordi di riservatezza.

La tecnologia deve servire l’umanità, non sacrificare il benessere delle comunità che la ospitano. Questo principio fondamentale richiede un ribaltamento delle priorità attuali, attraverso la promozione della sostenibilità di lungo termine, dell’integrazione territoriale responsabile, della trasparenza democratica. Le comunità locali non possono continuare a pagare il prezzo dell’innovazione globale senza voce in capitolo e senza benefici tangibili.

Il futuro dei data center deve essere negoziato, non imposto, deve bilanciare il progresso tecnologico con la giustizia ambientale, deve riconoscere che acqua ed energia non sono merci infinite a disposizione di chi può permettersele, ma beni comuni da tutelare per le generazioni presenti e future. Solo allora la rivoluzione digitale potrà essere veramente sostenibile, non solo nei comunicati stampa delle multinazionali ma nella quotidianità di chi vive accanto ai server che alimentano il nostro mondo connesso.


Glossario Eticoin criptovalute

Mining pool

Un mining pool è un gruppo di minatori crypto che uniscono le loro forze (potenza di calcolo) per cercare di risolvere i complessi problemi matematici necessari per validare le transazioni bitcoin e guadagnare le ricompense. È come giocare al lotto. Un giocatore da solo ha poche probabilità di vincere. Ma se si unisce ad altri condividendo un sistema più costoso della giocata singola, ha maggiori possibilità di vincere. Anche se poi deve dividere il premio. Nel pool, quando qualcuno del gruppo “vince” (trova un blocco), la ricompensa in bitcoin viene divisa tra tutti i partecipanti. Ciò in base al proprio contributo in termini di lavoro. Questo rende il mining più accessibile anche a chi non ha una potenza di calcolo adeguata.


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