Il «no» delle banche etiche alla difesa nella finanza sostenibile
Le istituzioni europee fanno pressione per sdoganare la difesa nella finanza sostenibile. Una prospettiva inaccettabile per le banche etiche
Nel corso del 2024 gli Stati membri dell’Unione europea, attingendo alle proprie risorse nazionali, hanno investito nella difesa 326 miliardi di euro. Una cifra che cresce del 30% rispetto al 2021. Così come cresce il peso della difesa nella proposta di bilancio europeo che la Commissione ha presentato per il periodo 2028-2034. Su un totale di circa 2mila miliardi di euro, si parla di 131 miliardi all’interno del Fondo per la competitività europea (il quintuplo alla dotazione attuale), a cui si aggiungono gli altri programmi collaterali.
Ma, per rafforzare l’industria miliare ai livelli auspicati dalle istituzioni europee, devono entrare in gioco anche i capitali privati. Da qui le pressioni sempre più forti per sdoganare la difesa anche nella finanza sostenibile. Una prospettiva che le banche etiche riunite della Gabv (Global Alliance for Banking on Values) respingono con forza.
Le pressioni per sdoganare la difesa nella finanza sostenibile
La Commissione europea si è affrettata a chiarire, con un documento ufficiale, che le normative sulla finanza sostenibile non vietano espressamente di investire nella difesa. La Sustainable Finance Disclosure Regulation (Sfdr) annovera tra gli impatti negativi soltanto le armi controverse, come mine antipersona, bombe a grappolo e armi chimiche e biologiche. Non dice nulla però sulle armi convenzionali né su quelle nucleari. Tecnicamente, aggiunge la Commissione, anche le industrie militari possono presentarsi come allineate alla tassonomia delle attività economiche eco-compatibili.
«Sebbene governi ed entità sovranazionali abbiano il diritto di scegliere come difendersi, le banche e gli altri istituti finanziari non dovrebbero essere incentivati a trarre profitto dal commercio di armi utilizzate nei conflitti», ribatte Martin Rohner, direttore generale di Gabv, in un editoriale pubblicato da Reuters. «A nostro avviso, il finanziamento di armi e armamenti è in contrasto con qualsiasi definizione di finanza sostenibile. L’attuale dibattito politico in Europa rischia di normalizzare il “warwashing”, ovvero il rebranding del finanziamento delle armi come investimento socialmente responsabile».

Perché le armi non hanno nulla di sostenibile
Il motivo è presto detto: «La produzione e il commercio di armi sono – per loro natura – finalizzati a provocare danni». Danni innanzitutto umani. Oggi nel mondo sono 56 i conflitti – grandi e piccoli – in corso, il numero più alto dalla Seconda guerra mondiale. Con un bilancio esorbitante in termini di vittime civili. Ma non è tutto. «Il settore bellico è ripetutamente associato a rischi di corruzione, catene di approvvigionamento opache, infrazioni ai regimi di controllo delle esportazioni e seri problemi di governance», continua l’editoriale.
Le guerre sono catastrofi anche ambientali e climatiche: ogni punto percentuale in più che uno Stato investe nella difesa fa crescere le sue emissioni di gas a effetto serra dell’1-2%. La distruzione di edifici e infrastrutture, gli ordigni inesplosi, i materiali radioattivi o pericolosi rimasti nel territorio sono soltanto alcune delle eredità che pesano sulle future – incolpevoli – generazioni, anche ben oltre la cessazione delle ostilità. «Etichettare come “sostenibili” investimenti in tali attività mina la fiducia del pubblico ed è in contrasto con le reali intenzioni degli investitori», ribadisce Martin Rohner.
Una finanza disarmata esiste: l’esempio delle banche etiche
«L’industria finanziaria non dovrebbe trarre profitto dall’aumento della spesa per la difesa militare. Si tratta di una questione di competenza dei governi, non di un’occasione di business per i privati», si legge nell’editoriale del direttore generale della Gabv. Una rete, quest’ultima, che conta oltre 70 banche aderenti in tutto il mondo – tra cui Banca Etica per l’Italia. Dimostrazioni concrete di quanto sia possibile fare finanza, con successo, restando slegati dal comparto della difesa.
Un fermo “no” agli investimenti nelle armi che le banche etiche della Gabv hanno messo nero su bianco con la Dichiarazione di Milano. Un documento, presentato durante l’assemblea generale del febbraio 2024, che invita altri attori del mondo della finanza a seguire questo esempio e rendere più severe le proprie policy. Ci sono alcuni membri della Gabv anche tra i dodici istituti che di recente hanno invitato le istituzioni europee a chiarire e ampliare la definizione di “armi controverse”, per evitare che le imprese produttrici di armi nucleari, incendiarie, munizioni all’uranio impoverito o altri strumenti di distruzione finiscano nei portafogli dei fondi Esg (cioè basati su criteri ambientali, sociali e di governance).
È cruciale, conclude Rohner, che gli attori finanziari rendano noti sui loro legami – più o meno diretti – con il ramo della difesa. Ed è cruciale che gli investitori e i clienti esigano trasparenza dai soggetti a cui affidano i propri capitali. «La finanza non è mai neutrale. In un mondo di crisi crescenti, dove le risorse pubbliche si dividono tra la difesa e gli investimenti urgenti necessari per il clima e per gli obiettivi sociali, l’allocazione del capitale diventa cruciale», conclude Rohner. «La finanza sostenibile non può includere le armi. Salvaguardare l’integrità dell’Esg – e la credibilità della finanza come forza positiva – dipende dalla chiarezza di questa distinzione».
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