Droni armati low cost: la corsa senza regole dell’industria fa paura
L'industria dei droni, civili e militari, vola, spinta dagli USA: varrà 21 miliardi entro il 2025. Intanto terroristi, guerriglieri e criminali aspettano la versione low cost
L’industria dei droni vola. Quella dei droni agricoli o per le riprese aeree, come pure il comparto dei droni militari, armati e non. Anche perché i maggiori finanziamenti per lo sviluppo di certe macchine vengono messi a disposizione da enti governativi (di solito appartenenti al comparto Difesa). E spaventa l’incremento impetuoso di un business che appare “senza pilota” sotto diversi aspetti.
Il settore produce e vende ormai centinaia di modelli di UAV, ovvero gli Unnamed Aerial Vehicles (che in italiano diventano Apr, Aeromobili a pilotaggio remoto). E cresce grazie a circa 450 produttori, 300 dei quali starebbero lavorando anche su progetti destinati a impieghi militari. In un mercato che, stando alle ultime stime, potrà valere circa 5 miliardi di dollari per i droni commerciali nel 2021, e addirittura 21 miliardi di dollari per quelli militari nel 2025.
Se l’impiego civile di aeromobili controllati a distanza ottiene utilissimi risultati in ambiti diversi (agricoltura, informazione in aree di conflitto, controllo del territorio a fini di tutela ambientale e sicurezza), quando si parla di droni da guerra le cose cambiano.
Paura dei droni a basso costo
Al di là di un’opzione antimilitarista e di generiche dichiarazioni d’intenti, la diffusione di queste tecnologie belliche presenta infatti due aspetti che inquietano le organizzazioni per la difesa dei diritti umani.
- La mancanza di regole internazionali stringenti e condivise e di un quadro giuridico adeguato ad evitare un possibile utilizzo indiscriminato in ambito militare.
- L’opportunità di una proliferazione e di uno sviluppo non controllato, che limiti la conoscenza delle tecnologie disponibili e di chi possa averle in mano.
Un allarme circostanziato in più occasioni anche dagli attivisti per il disarmo. E contenuto in un rapporto (Unnamed Ambitions) appena pubblicato dall’organizzazione olandese PAX – Pax for peace (tra i promotori della campagna contro i Killer Robots). Un documento realizzato col finanziamento di Open Society Foundations, che fa capo al magnate americano di origine ungherese George Soros, e che si fa portatore di una domanda pressante:
«Chi svilupperà la versione AK-47 del drone? Una versione a buon mercato e facile da produrre e impiegare, e che può essere utilizzata da una vasta gamma di attori, statali e non?»
Il kalashnikov dei cieli?
L’AK-47, meglio noto come Kalashnikov, ovvero l’arma automatica che, per efficienza e costi contenuti, è la preferita da gruppi criminali e terroristici, dai guerriglieri di ogni sorta nel mondo. Ed è facile immaginare quali profitti e quale pericolo nascerebbero se un drone volante armato con caratteristiche simili venisse messo in vendita. Tanto più se associato alle prospettive di sviluppo tecnologico in corso che punta alla gestione di sciami di droni. Cioè di più velivoli senza pilota in contemporanea.
Pensieri ed esperimenti in tal senso li stanno già facendo i cartelli della droga colombiani, del resto. Mentre la Russia ha denunciato a gennaio 2018 il tentativo di attacco a una sua base in Siria con dei droni fai-da-te dotati di missili. Per non dire dell’assaggio delle potenzialità di una diffusione incontrollata di UAV armati giunto il 5 agosto 2018 da Caracas. Quando un drone è esploso in aria a poche decine di metri dal presidente venezuelano Nicolas Maduro che parlava in pubblico.
America regina. Ma Trump vuole di più
A conferma di un trend generale di crescita economica del settore c’è un ulteriore indice. Il rapido aumento globale di eventi pubblici e fiere dedicati ai droni negli ultimi anni. Tanto che quelli confermati per il 2018 sono più di 100.
Un fermento registrato dal rapporto di PAX, che analizza in dettaglio uno scenario in cui gli Stati uniti sono indiscussi leader del mercato. Proprietari della maggior parte delle tecnologie e dei brevetti più avanzati, vendono i propri droni militari Predator e Reaper, o i giganteschi Global Hawk, agli eserciti “amici” di tutto il mondo, Italia compresa. E lo fanno a precise condizioni. Poiché è il fornitore ad autorizzare la dotazione dei velivoli, che sia per semplice sorveglianza e ricognizione o per colpire militarmente un obbiettivo.
USA leader indiscussi grazie soprattutto a un budget miliardario. E intenzionati a rafforzare la propria posizione, se è vero che il Dipartimento della difesa ha richiesto, per l’anno fiscale 2019 – si legge in Unnamed Ambitions -, 9,39 miliardi di dollari (7,5 miliardi nel 2018) per i sistemi senza pilota e le tecnologie associate. Prevedendo un finanziamento per l’acquisto di 3447 nuovi droni di aria, terra e mare (807 nel 2018).
Ma non basta. Perché nel 2017 l’amministrazione di Donald Trump ha ulteriormente allentato i regolamenti interni per l’esportazione di droni armati. E vuole modifiche dell’MTCR, l’accordo internazionale che limita fortemente le opportunità di vendere tecnologie d’interesse militare a nazioni e soggetti esterni.
Dal 5G alla sostituzione delle flotte
D’altra parte è l’intero panorama internazionale dei droni militari ad essere in rapida evoluzione. Di pari passo con una rivoluzione tecnologica degli armamenti e della guerra stessa, favorita – ad esempio – dall’avanzamento di tecnologie per la trasmissione dati come l’incombente 5G.
Basti pensare che il ministero della Difesa britannico già nel 2012 prevedeva di condurre con aerei a controllo remoto tutte le sue operazioni entro il 2030, basando un terzo della Royal Air Force su velivoli senza pilota.
L’America già oggi addestra più piloti di drone che di caccia, e alcune proiezioni dicono che i droni potrebbero rappresentare circa metà dei suoi aerei militari entro il 2035.
Anche l’Europa si sta attrezzando. Secondo PAX «la flotta europea di droni militari è prevista in crescita di circa il 4% annuo, destinata perciò a valere più di un terzo degli aerei militari europei entro il 2050, con un totale di 3 mila droni».
Tutti i fan dell’aereo senza pilota
E così, oltre all’America, oggi Israele (il maggior esportatore di droni militari), Cina (in rapida crescita), e Francia si collocano tra i cosiddetti players principali del settore. Mentre nuovi soggetti (India, Iran, Pakistan, Russia, Sudafrica, Sudamerica, Turchia, Ucraina) si candidano a diventare protagonisti in futuro, con proprie attività industriali specializzate.
Si allunga intanto la schiera di quei Paesi che cominciano a investire sul settore, ad attivare programmi militari o produrre droni – ancora inoffensivi – e componenti, ad acquistarne altrove. In questa lista ci sono Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Nigeria, Messico, Polonia, Arabia saudita, Corea del Sud, Taiwan, Emirati arabi uniti e Venezuela.