Elezioni Usa: esce la Cina, entrano i grandi fondi d’investimento
Il vincitore delle prossime elezioni americane sarà deciso dai rapporti con la Cina e con i grandi fondi d’investimento
Il vincitore o la vincitrice delle prossime elezioni americane dovrà fare i conti con alcuni elementi di fondo dell’economia statunitense. In primo luogo dovrà decidere come affrontare la questione del costante ingigantimento del debito federale, che ha superato i 36mila miliardi di dollari. Pari al 121% del Pil. E che cresce di mille miliardi di dollari ogni 60 giorni. Questa montagna di debiti, con cui il governo degli Stati Uniti finanzia una imponente spesa federale, è per circa il 70% collocata negli Stati Uniti. Qui hanno un ruolo rilevante fondi pensione, fondi di investimento e banche, attualmente nel mani di pochissime società di gestione del risparmio.
La rimanente parte invece è venduta all’estero, con una percentuale importante in mano a un numero molto limitato di soggetti. A cominciare dal Giappone, con oltre 1.300 miliardi, seguito da Taiwan, Canada, Francia e India. Naturalmente, per finanziare questo debito così grande sono necessari tassi di interesse remunerativi. E questi dipendono in larga misura dalla prerogativa del Tesoro degli Stati Uniti di pagare simili interessi attraverso la dollarizzazione.
La Cina e i Brics puntano alla fine del dollaro come valuta internazionale
È invece ormai scomparsa dalla lista dei compratori di debito statunitense la Cina. Un segnale non certamente favorevole per la stessa dollarizzazione, sempre più minacciata dalla ricerca di una autosufficienza monetaria non solo cinese, ma del complesso dei Paesi Brics. La piattaforma che tali Stati stanno discutendo prevede infatti una decisiva spinta alla fine del dollaro come valuta internazionale. La creazione di una unità contabile comune e un sistema di pagamenti internazionali in valute digitali con una regolamentazione e criteri di funzionamento diversi da quelli “occidentali”. Questi pagamenti avverranno su una blockchain detta Brics Pay, totalmente distinta dal dollaro.
In sintesi, tali Paesi, dopo aver acquisito il controllo dell’economia reale, si stanno dotando della moneta e della finanza necessarie a tale economia. Un passaggio siffatto può rendere assai complesso anche un ulteriore elemento che caratterizza l’economia degli Usa, costituito da una posizione finanziaria netta passiva per oltre 21mila miliardi di dollari. In altre parole, gli Stati Uniti prendono a prestito tra debito federale e titoli di varia natura una cifra smisurata dal resto del mondo. Cifra che è indispensabile sia alla tenuta delle Borse a stelle e strisce sia all’economia reale del Paese.
L’economia Usa non potrà più dipendere dall’estero
È evidente alla luce di tutto ciò che l’attuale condizione americana si regge pressoché unicamente su una dipendenza dall’estero. E sulla capacità di raccolta del risparmio globale ad opera dei grandi fondi, senza la quale la recessione sarebbe inevitabile. Dunque il nuovo presidente o la nuova presidente dovranno scegliere, al di là delle attuali dichiarazioni elettorali, come porsi nello scacchiere internazionale. Per non rischiare di essere travolti dalla già ricordata dipendenza.
In questo senso, è probabile che non possano spingersi troppo oltre nella strada dei dazi per due ragioni fondamentali. La prima è costituita proprio dal rischio che una chiusura alle merci delle altre nazioni, Cina in primis, indebolisca la fondamentale dollarizzazione e la capacità di attrarre capitale estero. La seconda è riconducibile al pericolo di inflazione che i dazi verso prodotti a basso costo genererebbe negli Stati Uniti, determinando un brutale abbassamento del potere d’acquisto dei consumatori.
Per questo chi vincerà le elezioni dovrà trovare un accordo con i grandi fondi
È altrettanto probabile che il futuro inquilino/a della Casa Bianca dovrà trovare un accordo con i grandi fondi: BlackRock, Vanguard e State Street in particolare. Per convincerli, attraverso un regime fiscale di favore e una legislazione debolissima in materia di concentrazione e regolazione antitrust, a sostenere con forza la dollarizzazione. Raccogliendo risparmio diffuso, non solo negli Stati Uniti ma in giro per il mondo, per indirizzarlo verso gli States stessi. E soprattutto verso titoli in dollari.
Questo rapporto privilegiato potrà coinvolgere anche politiche monetarie mai troppo espansive. Perché l’eccesso di liquidità potrebbe generare una nuova concorrenza nei mercati finanziari, favorendo il comparto della finanza più piccola e più spregiudicata. A danno dei grandi fondi che, in un regime monetario restrittivo, sarebbero invece gli unici a disporre di liquidità e quindi a non dover temere possibili concorrenze da altri soggetti.
Decisivo anche l’approccio su “big tech” e criptovalute
In tema finanziario, peraltro, la prossima presidenza dovrà decidere come gestire, se possibile, la corsa degli indici borsistici. E le super capitalizzazioni raggiunte dalle società “big tech” che da un lato alimentano gli indispensabili rendimenti per i tanti risparmiatori, oltre al Pil. Ma, al contempo, creano una bolla sempre più sganciata dall’economia reale. In quest’ottica, la strada da percorrere, in parte annunciata da Biden, sarebbe quella di smantellare alcune posizioni di eccessiva forza, come nel caso di Microsoft.
Una strada però decisamente impegnativa perché metterebbe in discussione il già ricordato, fondamentale, ruolo dei super fondi. Un’ultima notazione riguarda le criptovalute. Sarà necessario decidere se tali strumenti, e in primis i bitcoin, potranno essere utilizzati come soluzione per una forma diversa di dollarizzazione, adoperando soprattutto le forme delle stable coin. O verranno equiparati, ancor più a strumenti speculativi. E sono due ipotesi su cui i candidati si sono espressi in modo assai diverso.