ESG, complessità e costi: no a scuse per legittimare usi distorti

ESG, greenwashing, vigilanza, la finanza non sia esentata dalle responsabilità. Le risposte al commento di Giovanni Sabatini sul Sole24Ore

valutazione in Europa al fine di imporre una disciplina organica © TarikVision/iStockPhoto

Con un intervento assai articolato su il Sole 24 Ore del 21 giugno, il direttore generale di Abi Giovanni Sabatini, prende posizione sulla produzione normativa dell’Ue sui temi ESG. Concentrandosi, ovviamente, sugli oneri – a suo giudizio eccessivi – che questi pongono a carico delle banche e delle imprese.

La complessità del tema ESG non può essere un alibi per chi deve regolamentare il settore

Non è difficile concordare su alcune dichiarazioni, fin troppo generali, contenute nel testo: che la normativa in questo settore, ma direi che questo dovrebbe essere un principio generale per ogni attività legislativa, debba essere «coordinata ed elaborata e implementata con sequenze temporali … coerenti» proprio per renderla più efficace, mi pare debbano essere principi generali dell’attività normativa. Coerenza, efficacia, chiarezza, proporzionalità dovrebbero essere i fari di ogni istituzione, pubblica o privata, di qualsiasi livello territoriale, chiamata a produrre norme. Chi potrebbe sostenere il contrario, anche se purtroppo spesso così avviene?

Però tali principi implicano che si normi bene e meglio, non che si rinunci a farlo per timore della complessità. E, sia detto per inciso, la complessità insita nelle tematiche ESG non può essere un alibi per lasciare ambiti di necessità scoperti dalla norma. Questo è il rischio che, a nostro avviso, l’articolo di Sabatini corre.

Il rischio di un uso distorto della finanza sostenibile

In particolare su due questioni che stanno al centro del testo. Sabatini lamenta il fatto che l’Esma, Autorità europea su sicurezza e mercati, nel rapporto ad interim sui rischi delle pratiche di greenwashing e sulle politiche di supervisione della finanza sostenibile, abbia inteso richiamare l’attenzione anche (non esclusivamente) su pratiche di tal fatta poste in essere involontariamente. Questa fattispecie, difficile da dimostrare, rischia – secondo Sabatini – di creare «effetti controproducenti».

Vero è, come lo stesso Sabatini sostiene, che «la mancanza di metriche standardizzate per misurare i rischi, l’assenza di benchmark adeguati e di una regolamentazione che definisca concetti ampiamente diffusi come investimenti a impatto sociale o attività che non determina danni significativi», potrebbero portare banche e altri intermediari finanziari a non occuparsi di questi temi per non incorrere nei rischi di greenwashing.

Ma, in primo luogo, l’Esma non è un ente che produce norme e qui siamo in ambito di approfondimento richiesto proprio dalla Commissione europea in vista della propria attività legislativa. E, quindi, molto bene ha fatto l’Esma a segnalare anche la problematica del greenwashing involontario e a suggerire alla Commissione di normarla. Più in generale a noi appare molto opportuno che la Commissione intenda occuparsi di questo problema e che abbia chiesto all’Esma di delinearne i contorni perché, evidentemente, anche per le banche e gli altri intermediari finanziari, il rischio non è affatto quello di astenersi dall’occuparsi di finanza sostenibile ma, al contrario, di farne un uso distorto e di abusarne.

La soluzione non è evitare di regolamentare il greenwashing involontario

Questo è avvenuto e, quando la Commissione ha posto questo tema sotto la propria attenzione, abbiamo assistito ad un veloce declassamento di fondi da articolo 9 della tassonomia (fondi dark green) a fondi articolo 8 (light green) o addirittura ad essere declassati da quelli sostenibili secondo la normativa Ue. A dimostrazione che di abuso da greenwashing si è fatto largo uso proprio da parte della finanza.

Inoltre, le condotte di greenwashing possono essere volontarie o involontarie, ma il punto di fondo è che esse sono «lesive della fiducia del mercato e degli investitori e della concorrenza al pari delle pratiche di manipolazione già oggetto di ampia e pervasiva regolamentazione». Ma se così è, e lo ammette anche Sabatini, la soluzione non è espungere le condotte involontarie dalla regolamentazione, perché questa sarebbe sì una rinuncia a sanzionare attività lesive di diritti. Sarebbe come se si eliminasse il reato – che so? – di abuso d’ufficio perché esso è difficile da dimostrare e perseguire… Assurdo, no?

Il dovere di vigilanza non può non essere applicato anche alle banche

Il secondo elemento fallace, a nostro avviso, del ragionamento di Sabatini, riguarda la recente Direttiva europea relativa al dovere di diligenza (due diligence) delle imprese ai fini della sostenibilità. La norma introduce un dovere in capo alle imprese relativo alla individuazione, mitigazione e eliminazione degli impatti sui diritti umani e sull’ambiente generati lungo tutta la catena di fornitura e il ciclo di vita della produzione. Ebbene, secondo Sabatini «una tale estensione degli obblighi amplia in modo sproporzionato la responsabilità delle imprese e degli amministratori rendendo la conformità a tale impianto normativo di fatto impossibile».

Inoltre Sabatini ritiene che l’estensione al settore bancario e finanziario di questi obblighi «comporterebbe ulteriori rilevanti complessità e difficoltà (…), imponendo obblighi che vanno ben al di là della gestione dei rischi connessi con la transizione ambientale e sociale e del compito di facilitare tale transizione». Ecco, su queste considerazioni, noi siamo in netto e radicale dissenso.

Soprattutto perché ciò significa non avere una reale cognizione di quale sia oggi, nel mondo globalizzato, la realtà dei cicli produttivi e il ruolo della finanza in essi. Infatti, le produzioni di beni di largo consumo oggi si fondano su catene di fornitura lunghissime che portano ordinariamente allo sfruttamento di mano d’opera in Paesi lontanissimi dai luoghi di vendita e consumo di tali prodotti (dall’Asia, all’America Latina, all’Africa).

Complessità e costi non possono rappresentare una scusa

A tale sfruttamento, che rasenta spesso condizioni prossime alla schiavitù in assenza di qualunque diritto sindacale e giusta retribuzione (che, fino a prova contraria, fanno parte dei diritti contemplati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948), si sommano le condizioni di insicurezza per i lavoratori e per l’ambiente in cui si svolgono tali produzioni.

E perché mai le imprese committenti non dovrebbero essere in solido responsabili di queste condizioni di lavoro e non contemplare modalità per ridurre i rischi di ogni genere (anche reputazionali) che questi comportano? Perché sono complessi da prendere in considerazione? O perché implicano costi significativi? Nel primo caso direi che le imprese affrontano ben altre complessità nella loro quotidiana attività e esse possono e devono essere incorporate nel loro business tipico. Nel secondo caso, vorrà dire che gli azionisti potranno (e dovranno) rinunciare ad un po’ di dividendi ora, per non dover pagare altissimi costi di litigation e danni dopo.

Non si può garantire alla finanza una sorta di immunità

Infine, è proprio inconcepibile che la finanza debba essere considerata un settore così privilegiato da dover partecipare solo dei benefici e mai delle responsabilità. Come si può anche soltanto pensare che la finanza, che consente alle imprese di vivere e prosperare garantendo flussi di credito e di investimento decisivi, non debba partecipare ai rischi e alle responsabilità che attraverso questi flussi finanziari l’impresa si assume?

Vuol dire o mascherare di complessità e difficoltà una condizione di privilegio, oppure pretendere una sorta di immunità perpetua di un potere talmente forte e opaco da potersi permettere ogni abuso. In ogni caso, non è la nostra idea di finanza. La finanza etica lo è, prima di tutto, perché assume le responsabilità delle proprie azioni.