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Fed e debiti fanno tremare l’India

Il neoprotezionismo Usa potrebbe aggredire i 24 miliardi del surplus commerciale di Mumbai verso Washington. E l’eredità del credito facile potrebbe peggiorare le cose

Matteo Cavallito
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Matteo Cavallito
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E se fosse l’India una delle principali vittime eccellenti delle scelte macroeconomiche americane? Il dubbio serpeggia con una certa discrezione ma anche con lo scomodo sostegno dei dati sul fronte valutario e obbligazionario. “Tutto ha avuto inizio con i dazi di Trump sulle importazioni di acciaio e alluminio, una mossa pensata soprattutto per la Cina ma che non risparmia certo l’India e i suoi 24 miliardi di dollari di surplus commerciale con gli Stati Uniti” ha scritto nelle scorse settimane la rivista Forbes, sottolineando il potenziale impatto della svolta protezionistica americana sulla nazione asiatica.

I contrasti tra Washington e Mumbai in sede WTO – dove gli Usa contestano i sussidi all’export del governo indiano – sono noti da tempo e la sensazione, a questo punto, è che il Paese debba accelerare i tempi della trattativa. Le conseguenze della strategia americana, infatti, sono ancora avvolte nell’incertezza. E questa caratteristica, si sa, non contribuisce certo a rasserenare investitori e analisti.

Rupia debole

Alla fine di novembre, il magazine economico indiano Business Today ha individuato alcuni fattori di rischio legati all’effetto Fed, il rialzo dei tassi americani che accompagna con una scomoda concomitanza l’introduzione dei dazi commerciali. Tra questi una rinnovata pressione inflazionistica sulla rupia e un aumento dei costi di finanziamento sul debito contratto all’estero. Dall’inizio del decennio la valuta indiana si è deprezzata sensibilmente sul biglietto verde salvo poi stabilizzarsi nell’ultimo anno; le scelte della Banca centrale USA rischiano ora di invertire la tendenza. La scorsa settimana, un pool di economisti interpellati da Bloomberg ha confermato l’ipotesi stimando un aumento dell’inflazione fino a quota 5,3% nel secondo trimestre, un dato ben superiore ai livelli attuali (4,4%) e agli obiettivi di medio termine del governo (4%).

Ma la pressione sul debito riguarda anche il mercato interno. La discussa politica di demonetizzazione lanciata dal premier Narendra Modi alla fine del 2016 ha contribuito a creare un surplus di liquidità nei bilanci bancari inducendo gli istituti a investire nei titoli di Stato. Quando la corsa all’acquisto si è fermata, però, i titoli hanno iniziato a deprezzarsi generando perdite sul portafoglio. Questa situazione, ha rilevato il Financial Times, ha generato un circolo vizioso riducendo ulteriormente la richiesta dei titoli e alimentando i timori di un eccesso di offerta. A marzo, con un picco dei rendimenti al 7,76% sul decennale sovrano, il governo è corso ai ripari annunciando un rallentamento delle emissioni. Da allora gli interessi sono in discesa pur restando sensibilmente più alti rispetto ai livelli della scorsa estate<

Debito “strategico”

Queste scelte, sostiene ancora il quotidiano britannico, rischiano però di generare soltanto un modesto sollievo di breve periodo, impossibilitate come sono a risolvere il problema atavico del sistema finanziario indiano: la ridotta estensione della base degli investitori. L’India fa tuttora i conti con una modesta espansione dell’economia “formale” e un generale sottosviluppo dei comparto assicurativo e del settore dei mutual funds. L’apertura a maggiori investimenti stranieri nel settore finanziario annunciata in questi giorni rappresenta un passo avanti. Basterà?

Quel che è certo, intanto, è che l’indebitamento continua a rivestire un ruolo strategico nel sistema economico nazionale. Con tutte le conseguenze del caso. Per anni il governo ha incoraggiato il credito facile con l’obiettivo di sostenere la crescita del Paese, ma questa strategia ha successivamente presentato il conto: negli ultimi due anni, ha ricordato a marzo Il Sole 24 Ore, i prestiti in sofferenza delle 22 banche statali – che coprono da sole i 2/3 del credito circolante del Paese – sono aumentati del 135%. Gli asset in sofferenza dell’intero sistema bancario nazionale, inclusi i crediti già ristrutturati, ammonterebbero oggi a 191 miliardi di dollari. Una cifra che equivale al 10% circa del Pil nominale.