Come la finanza trasforma i festival musicali in asset finanziari
Dal Sónar al Sziget, la musica dal vivo è diventata un affare per i fondi di private equity. E i festival perdono la loro anima
La finanza si è presa anche la musica. Cataloghi, diritti e streaming sono diventati asset da cui ricavare profitti, e pochi grandi colossi dominano ormai il mercato. Con il risultato di una produzione musicale sempre più standardizzata, che lascia poco spazio alla sperimentazione e alle esperienze indipendenti.
Ma se la musica diventa solo un investimento, che ne è del suo valore culturale e collettivo? È la domanda da cui parte questo dossier, che analizza dati, voci e prospettive di chi la musica continua a farla, studiarla e viverla.
Gli articoli che compongono il dossier:
- Come la finanza trasforma i festival musicali in asset finanziari
Dal Sónar al Sziget, la musica dal vivo è diventata un affare per i fondi di private equity. E i festival perdono la loro anima - Cosa succede quando la finanza governa la produzione musicale
Dai Bowie Bonds ai fondi di private equity: come la musica è diventata un asset finanziario e cosa resta agli artisti - Cosa succede alla musica quando a dominare sono le piattaforme di streaming
Dallo streaming ai playlist algoritmiche: come Spotify e le grandi piattaforme stanno cambiando la musica, il suo valore e chi la produce - La solitudine dell’artista in un mercato musicale ridisegnato dai grandi colossi
Nel panorama musicale contemporaneo, la concentrazione del mercato riduce la libertà degli artisti e impoverisce la diversità culturale
I festival musicali non sono soltanto concerti allungati su più giorni. Per generazioni di artisti e appassionati sono stati laboratori sociali, luoghi di sperimentazione, esperienze collettive capaci di generare comunità temporanee e identità culturali. Dalla controcultura degli anni Settanta ai grandi raduni elettronici, ogni festival ha costruito una propria anima, spesso radicata in un territorio. Oggi, però, quel patrimonio rischia di svanire dietro l’ingresso di un attore nuovo e potente: i fondi di private equity.
La parabola dei festival musicali: dal rock al private equity
Il private equity è una forma di investimento che raccoglie denaro da grandi soggetti istituzionali – banche, assicurazioni, fondi pensione – per comprare aziende, “ottimizzarle” e rivenderle con profitto in un arco temporale limitato, di solito cinque o sette anni. Le leve principali sono il taglio dei costi, la crescita attraverso acquisizioni e la centralizzazione dei servizi. Non importa se si tratti di ospedali, catene di hotel o società di telecomunicazioni: l’obiettivo è sempre lo stesso, far crescere il valore dell’asset e incassare al momento della vendita.
Che questa logica entri anche nella musica dal vivo non sorprende. Molti festival musicali, usciti più fragili dalla pandemia con bilanci in rosso e difficoltà ad attirare sponsor, per i fondi rappresentano prede ideali. Marchi riconoscibili, flussi di cassa prevedibili e, soprattutto, un settore emotivamente carico che può essere sfruttato commercialmente.
Il caso Superstruct e la mossa di KKR
Il caso più emblematico riguarda Superstruct Entertainment, fondata nel 2017 e diventata in pochi anni un colosso europeo dei festival musicali. Nel suo portafoglio figurano circa 80 eventi, tra cui il Sónar di Barcellona, l’Exit in Serbia, il Sziget a Budapest e il Wacken Open Air in Germania, oltre a numerosi festival di nicchia. Nell’estate 2024, il gigante statunitense Kkr – uno dei fondi più grandi al mondo – insieme a CVC Capital, ha acquisito Superstruct per 1,3 miliardi di euro.
Con questa operazione, un gruppo di investitori finanziari si è trovato a controllare una fetta enorme del mercato europeo dei festival, imponendo una logica di concentrazione che riduce progressivamente la diversità di voci e attori nel settore.
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Quando i fondi irrompono nel mercato dei festival musicali
Le conseguenze non sono difficili da immaginare. Un festival, agli occhi di un fondo, è un asset da massimizzare. Ciò significa biglietti più cari, pacchetti vip, sponsorizzazioni sempre più invasive. Significa anche una programmazione più prevedibile, con artisti “sicuri” che garantiscono grandi numeri, a scapito di scelte sperimentali o controcorrente. Il rischio è la standardizzazione dei cartelloni: lineup simili da una città all’altra, logiche di marketing uniformi, eventi intercambiabili. L’identità culturale che per decenni ha reso unico ogni festival rischia di scomparire sotto la pressione della redditività.
Il caso del Boiler Room, festival diffuso in tutto il mondo (da Berlino a Tokyo, passando per Bologna), è rivelatore. Nato nel 2010 come progetto indipendente che dava spazio a dj emergenti e culture underground, sotto il controllo della piattaforma di vendita di biglietti Dice è diventato un punto di riferimento globale per la club culture. Dopo l’acquisizione da parte di Superstruct, diversi artisti hanno cancellato le loro performance in segno di protesta contro i legami di Kkr con investimenti ritenuti eticamente controversi. In particolare in Israele, ma non solo. Nel portafoglio del fondo figurano, infatti, il produttore di armi Circor International, il gasdotto canadese Coastal GasLink (che ha incontrato una forte opposizione da parte della popolazione indigena) e società coinvolte nel sostegno agli insediamenti israeliani in Cisgiordania. In seguito alle critiche, Superstruct ha dichiarato il proprio sostegno alla causa palestinese.
Non solo KKR: la spinta dei fondi olandesi nei festival musicali
Superstruct non è l’unico attore. L’olandese Waterland ha costruito un proprio impero attraverso All Things Live, che controlla promoter e festival in Scandinavia, Belgio e Paesi Bassi. Anche qui la logica è identica: centralizzare sotto un’unica regia eventi diversi, sfruttare economie di scala, imporre strategie di marketing globali.
Questa dinamica ricalca quanto avvenuto in altri settori culturali. Per esempio, è un copione già visto nel cinema, dove fusioni e acquisizioni – il più recente è il tentativo di Paramount di acquisire Warner Bros – hanno concentrato il potere creativo nelle mani di pochi gruppi globali, imponendo modelli uniformi di produzione e distribuzione su scala mondiale. Nella musica registrata, le major hanno concentrato la filiera nelle mani di pochi attori: Universal Music Group, Sony Music Entertainment e Warner Music Group controllano circa il 75% della produzione mondiale.
Ora tocca alla musica dal vivo anche se, a dirla tutta, la tendenza al “monopolio” era già in atto da anni. L’esempio più emblematico arriva dagli Stati Uniti, dove la fusione tra Live Nation e Ticketmaster, sancita nel 2010, ha dato vita a un colosso capace di controllare l’intera filiera della musica dal vivo: dagli artisti alle venue (ovvero al luogo dell’evento) fino alla vendita dei biglietti. Un sistema verticale e integrato in cui ogni anello alimenta il successivo, riducendo al minimo lo spazio di autonomia per musicisti indipendenti, promoter alternativi e pubblico.
Il rischio di un monopolio silenzioso della musica live
In questo processo di accentramento, i fondi di investimento si sono inseriti arrivando a monopolizzare non solo i festival ma anche i diritti d’autore, cambiando per sempre le nostre abitudini di ascolto. L’oligopolio nel settore musicale, infatti, sta cambiando le identità di festival e artisti, dettando prezzi e condizioni. Per i consumatori significa meno scelta e maggiori costi; per gli artisti indipendenti significa meno possibilità di emergere in contesti di visibilità internazionale. In gioco non c’è solo l’industria musicale, ma l’idea stessa di cosa significhi vivere la musica come esperienza collettiva.
«I grandi soggetti in campo sono i gestori del risparmio collettivo: BlackRock, Vanguard e State Street, per fare alcuni nomi», spiega Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa e già autore di Valori.it. «La dinamica di azione di questi fondi è più o meno sempre la stessa, anche nel mondo della musica. Il capitale che gestiscono non arriva dagli azionisti, ma dai risparmiatori i cui soldi vengono convogliati verso società quotate».
Cosa cercano i fondi nei festival musicali: profitti sicuri e concentrazione del mercato
I risparmi accumulati vengono infatti trasformati in azioni, sulle quali vengono costruiti strumenti finanziari capaci di generare interessi. «La logica è semplice: raccogliere il risparmio diffuso e remunerarlo», spiega Volpi. «Per riuscirci, i fondi devono mantenere alto il valore dei titoli, anche forzatamente, continuando a iniettare liquidità e acquistando azioni persino quando la società sottostante non è così solida. Può accadere che i ricavi reali diminuiscano, ma il titolo deve restare stabile per garantire rendimenti accettabili. In pratica, si alimenta artificialmente il valore di mercato con il denaro dei risparmiatori».
Poiché i fondi di investimento non possono permettersi di deludere chi affida loro i propri soldi, sono spinti a sostenere titoli che offrano sicurezza e redditività immediata. Il settore musicale, grazie alla standardizzazione della musica da consumo e alla prevedibilità dei flussi di streaming, è diventato uno di questi porti sicuri. Un ambito in cui la creatività è tradotta in rendimento e l’arte in asset finanziario.
«Inoltre, i fondi tendono a creare aggregazioni sempre più grandi», continua l’esperto. «Se i gruppi sono enormi, i loro titoli sono più protetti. La presenza azionaria comune – per esempio di BlackRock sia in Warner Bros che in Paramount – rende molto più facile ogni forma di fusione. Anche quando non si arriva alla fusione, si riduce comunque la concorrenza reale, perché è evidente che gli stessi azionisti non hanno interesse a danneggiare una delle due società di cui sono parte».
Che male c’è nello strapotere dei fondi di investimento?
Volpi avverte che questo meccanismo va a discapito di qualsiasi altra esigenza o prospettiva economica. «Direi che il problema è duplice: anzitutto, questi fondi vivono di liquidità che non è loro. Perché continui ad affluire, bisogna che esistano canali costanti di raccolta: i principali sono i fondi pensionistici e i fondi sanitari. E per alimentarli serve privatizzare quei settori». In altre parole: se voglio che la previdenza finisca nelle mani dei grandi fondi, devo ridurre la spesa pensionistica pubblica. Significa che chi vuole una pensione dignitosa deve ricorrere alla previdenza privata, e quei soldi finiranno poi a BlackRock o ai suoi equivalenti. Insomma, perché i risparmiatori si rivolgano ai grandi fondi internazionali è necessario demolire lo stato sociale (o perlomeno sostenere la sua demolizione).
«Il secondo problema riguarda il mercato finanziario in sé. Questi soggetti hanno partecipazioni rilevanti in un numero enorme di società, e ciò riduce la concorrenza reale. Se guardiamo le 500 società a maggiore capitalizzazione, scopriamo che circa il 25-30% è controllato dalle stesse tre o quattro entità. Anche in termini di innovazione, di competitività, di riduzione dei prezzi o di miglioramento dei servizi, il risultato è negativo. Pensiamo all’energia, dove questi fondi sono padroni quasi assoluti: la privatizzazione non ha generato un vero mercato libero, ma una concentrazione proprietaria che determina i prezzi. E i prezzi, infatti, non si abbassano mai».
Cosa succede (anche alla musica) se la bolla finanziaria esplode
C’è poi un altro effetto: le immissioni costanti di liquidità fanno sì che il valore azionario si allontani sempre di più dalle reali condizioni economiche. Questo genera un divario enorme tra il prezzo del titolo e l’utile effettivo, ed è così che si formano le bolle speculative. «Abbiamo già visto cosa succede: la bolla immobiliare americana sembrava inattaccabile e, invece, è esplosa. Oggi si potrebbe dire lo stesso di casi come Nvidia: una società con 20mila dipendenti, un fatturato in crescita del 20% l’anno – che è già tantissimo – ma una capitalizzazione che ha superato i 4mila miliardi di dollari. È evidente che esiste uno scollamento tra economia reale e finanziaria».
Se l’afflusso di risparmio su cui si regge questa macchina dovesse ridursi, o se nuovi attori emergessero offrendo le stesse tecnologie a costi inferiori (come nel caso dell’intelligenza artificiale), la bolla potrebbe esplodere. Non c’è certezza che le strategie di concentrazione dei fondi siano in grado di impedirlo. «Basti pensare che nei primi mesi di quest’anno Nvidia ha perso 600 miliardi di capitalizzazione in appena tre sedute: un chiaro indicatore della fragilità di un sistema così concentrato». Trasponendo lo stesso schema al settore musicale, le conseguenze ricadrebbero su molti: artisti, fan e l’intero ecosistema del live, tutti soggetti a un contraccolpo potenzialmente devastante.
Il 4 novembre 2025, lo Sziget Festival ha annunciato di essere uscito dalla società KKR e di essere tornato indipendente con alla guida il fondatore Károly Gerendai.
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