Dalle nostre tasche ai conti di chi distrugge le foreste: ecco come avviene
Ben $44 miliardi in 6 anni concessi da società di investimento, banche e fondi pensione ai big dell'agribusiness in Amazzonia, Congo e Nuova Guinea
Secondo uno studio del 2017 foreste e altri ecosistemi, aumentando lo stoccaggio del carbonio e/o evitando le emissioni di gas serra, sono in grado di fornire oltre un terzo della mitigazione climatica necessaria per limitare entro il 2030 il riscaldamento globale a meno di 2 °C. Eppure l’umanità continua a bruciarle e distruggerle: tra il 2001 e il 2015 sarebbero venuti meno oltre 300 milioni di ettari di copertura arborea. Più o meno la superficie dell’India.
Il peggio è che questo accade in gran misura per ragioni di semplice profitto economico di pochi, a cominciare dalle multinazionali dell’agribusiness, specialmente quelle interessate ai settori dell’allevamento di manzo, della produzione di soia, olio di palma, polpa di cellulosa e gomma. Ma è anche vero che la loro attività viene resa possibile anche da noi. Da un lato con gli stili di vita e consumo che adottiamo, alimentando l’attuale modello di sviluppo e produzione, dall’altro tramite i flussi finanziari, che si ingrossano – spesso a nostra insaputa, o quasi – con i nostri risparmi. Come mostra in dettaglio un’indagine recente pubblicata da Global Witness, organizzazione per la difesa dei diritti umani e dell’ambiente.
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Mentre un’altra ong – Global Canopy – valutava ben 150 istituti finanziari, affermando che quasi due terzi di loro non ha alcuna politica interna mirata su quattro prodotti strettamente connessi al rischio di deforestazione (carne di manzo, soia, olio di palma e legname), Global Witness, tenta di scavare più a fondo.
Nel suo report Money to burn (cioè Denaro per bruciare) sostiene che «alcuni dei più grandi nomi della finanza globale – tra cui Barclays, Deutsche Bank, HSBC, Santander e Standard Chartered – hanno fornito decine di miliardi di dollari in finanziamenti tra il 2013 e il 2019 a società che hanno deforestato direttamente o indirettamente le più grandi foreste pluviali nel mondo». Nel fenomeno «sono coinvolte anche le principali banche di investimento, tra cui JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Bank of America e Morgan Stanley». Ma la lista è assai lunga…
L’indagine finanziaria, svolta per conto di Global Witness dagli analisti no profit dell’olandese Profundo, si indirizza quindi verso il gotha della finanza internazionale. I giganti dell’agroindustria ricevono finanziamenti per nuovi progetti dagli hub bancari negli Stati Uniti, in Europa e in Asia. Per stabilirlo, i ricercatori hanno concentrato la loro attenzione sulle informazioni pubbliche relative alle linee di credito ottenute da sei grandi aziende agroalimentari (tre operanti in Amazzonia, due nel bacino del Congo e una in Nuova Guinea).
Il risultato finale è che, tra il 2013 e il 2019, queste compagnie hanno beneficiato di 44 miliardi di dollari, concessi da oltre 300 società di investimento, banche e fondi pensione.
Amazzonia: giganti della carne poco credibili
«I fondi pensione e gli investimenti della gente comune – spiegano gli analisti di Global Witness – vengono incanalati in società che incrementano la crisi climatica, spogliando le popolazioni indigene delle loro terre ancestrali e distruggendo le foreste che ospitano un numero imprecisato di specie».
Per quanto riguarda le corporation operanti nell’Amazzonia brasiliana, infatti, il rapporto chiama in causa le tre maggiori aziende del settore della carne bovina: JBS, Marfrig Global e Minerva Foods. Da sole rappresentano oltre il 45% della capacità di macellazione del bestiame della regione e tutte si dichiarano impegnate in misure che dovrebbero aiutare a proteggere la foresta.
Un impegno tuttavia assai lontano dall’essere messo in pratica: metà degli acquisti di bestiame di Marfrig provengono ad esempio da “fornitori indiretti”, non sistematicamente verificati (problema analogo per Minerva Foods). Inoltre, Marfrig avrebbe acquistato bestiame da un’area embargada, mentre la catena di approvvigionamento di JBS è stata coinvolta in pratiche di deforestazione secondo l’indagine chiamata Carne Fria.
Bacino del fiume Congo, deforestazione da gomma e olio di palma
D’altra parte, l’agroindustria non minaccia solo la vegetazione brasiliana. E benché sia l’agricoltura di piccole dimensioni il principale fattore di deforestazione in tutto il bacino del Congo, in Africa centrale, gli studiosi denunciano: «la minaccia dell’agricoltura industriale su larga scala cresce. Una serie di concessioni dal 2003 ha già visto circa 1,3 milioni di ettari di terra assegnati all’agricoltura industriale, tra cui la palma da olio e la gomma».
Per questo motivo Money to burn cita il più grande gestore della catena di approvvigionamento di gomma del mondo, la Halcyon Agri Corp di Singapore, che avrebbe il controllo delle piantagioni in Camerun, con decine di migliaia di ettari. Le accuse al colosso asiatico sono di carattere ambientale: dalle necessità di sfruttamento della terra derivano i disboscamenti. E questa pratica minaccia la biodiversità tropicale rompendo la continuità di un ampio fronte forestale che include Dja Faunal Reserve, area protetta patrimonio dell’UNESCO che ospita gorilla di pianura e scimpanzé. Per non dire delle milioni di tonnellate di CO2 emessa in atmosfera o riducendo gli stock di carbonio.
Sempre in Africa opera una compagnia agroalimentare di proprietà del governo di Singapore, il gruppo Olam, capace di attirare ingenti finanziamenti dalle banche. Olam viene correlata, in un rapporto del 2016 della ong Mighty Earth, alla distruzione di 20mila ettari di foresta all’interno delle sue piantagioni di palma da olio nel Gabon, dove tuttora opera.
Nuova Guinea, soldi pubblici dietro il rischio per la foresta
Se cambiamo regione, il contesto non muta di molto. Il gruppo Rimbunan Hijau (RHG, “Forever Green” in lingua malese) è un conglomerato con operazioni legate all’olio di palma su decine di migliaia di ettari in Papua Nuova Guinea. Un gruppo che Global Witness cita per essere al centro di «accuse credibili di frode e falsificazione perpetrate a spese dei proprietari terrieri indigeni». Accuse rispedite al mittente dai RHG: non abbiamo infranto alcuna legge e le comunità locali sostengono le nostre attività.
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Sta di fatto che «dal 2008, RHG ha disboscato più di 20mila ettari nelle sue piantagioni nella provincia della East New Britain, con l’intenzione di piantare 31mila ettari di palma da olio». E RHG lo ha potuto fare beneficiando di ingenti finanziamenti, anche di origine pubblica, con l’ufficio del Segretario finanziario dello Stato malese di Sarawak che deteneva azioni per un valore di oltre 6 milioni di dollari a marzo 2018, mentre la Malaysian Affin Bank prestava alla compagnia oltre 33 milioni. E, al di là della legittimità formale di tali operazioni, è difficile ignorare la denuncia di Global Witness a proposito di questo caso: «Nessuna istituzione ha risposto quando contattata ripetutamente in merito».