Finanziamenti ai falchi di Trump: c’è chi fa retromarcia

Dopo le notizie diffuse dalla stampa americana, numerose aziende hanno dovuto annunciare che non finanzieranno più le campagne dei fedelissimi di Trump

Il Campidoglio, sede ufficiale dei due rami del Congresso degli Stati Uniti d'America © YayaErnst/iStockPhoto

Tanto rumore per… qualcosa, una volta tanto. Numerose grandi aziende tra quelle che hanno finanziato le campagne elettorali dei parlamentari americani che, fino all’ultimo, si sono schierati con Donald Trump rifiutandosi di ufficializzare la vittoria elettorale di Joe Biden, hanno deciso di fare un passo indietro. Voltando le spalle a deputati e senatori rei, di fatto, di sostenere una posizione – quella, appunto, del miliardario americano – ritenuta ingiustificabile, sulla base delle regole democratiche. Ma facciamo un passo indietro di qualche giorno e riavvolgiamo il nastro.

Incalzate, le aziende hanno dovuto voltare le spalle ai fedelissimi di Trump

Il popolo, nel primo martedì dello scorso mese di novembre, ha votato. Un candidato ha vinto e uno ha perso. Il perdente ha denunciato brogli e imbrogli, e annunciato ricorsi. I voti sono stati ricontati e i ricorsi respinti. Il Collegio elettorale si è espresso. Altri ricorsi sono stati respinti. Il perdente non ha mai smesso di gridare alle «elezioni rubate». E così, nel giorno in cui una folla di estremisti aizzati dal presidente uscente Donald Trump assaltava il Campidoglio, un gruppo di rappresentanti e senatori repubblicani riuniti al Congresso si apprestava a votare contro la ratifica dell’elezione di Joe Biden. Dimostrando una fedeltà a Donald Trump che va ben oltre i limiti della democrazia, in quello che è da sempre un passaggio puramente formale nel processo di elezione del presidente degli Stati Uniti.

Un momento dell’invasione del Campidoglio da parte dei sostenitori di Donald Trump © TapTheForwardAssist/Wikimedia Commons

In quelle ore concitate, Popular Information pubblicava un’analisi in cui venivano svelati i nomi dei principali finanziatori di quei politici. Le solite multinazionali, quelle che abitualmente finanziano candidati di ogni colore politico, perché business is business. Ma la domanda che si facevano i curatori dell’analisi – e che hanno fatto a queste multinazionali – è: ora che avete visto all’opera questi 147 membri del Congresso e li avete visti votare contro il Collegio elettorale, contate di continuare a finanziarne le campagne elettorali e le attività?

In particolare, gli autori di Popular Information si sono concentrati sugli otto senatori che hanno espresso voto contrario anche alla ripresa della seduta parlamentare, una volta ristabilito l’ordine dopo l’attacco al Campidoglio. Sono state contattate le 144 aziende che hanno sostenuto le campagne elettorali di questi senatori nel 2020.

Impegni variabili da parte delle multinazionali

Molte di esse hanno dichiarato che smetteranno di finanziare tutti i parlamentari che hanno votato contro la ratifica dell’elezione di Joe Biden. Ma con diversi gradi di impegno: chi da subito e per sempre, chi per un certo periodo, chi rivedrà i criteri di scelta dei candidati da sostenere…

Trump
20 multinazionali hanno finanziato con milioni di dollari le campagne elettorali e le attività dei membri del Congresso che hanno appoggiato il piano di Donald Trump di sovvertire il risultato delle elezioni presidenziali © Gage Skidmore/Wikimedia Commons

L’articolo di Popular Information era stato rapidamente ripreso da molte testate di rilievo internazionale come  The Wall Street JournalThe Washington Post, Financial TimesReuters e altre. Ciò ha costretto gran parte delle aziende, che in un primo momento si rifugiava dietro a un «no comment», a prendere posizione. Generalmente molto netta e inedita.

Del resto, è inedita la situazione che si è creata in questi mesi, culminati nell’attacco al Congresso. Non si è trattato di una semplice disputa politica tra rappresentanti con punti di vista diversi. Si è trattato di un tentativo di sovvertimento delle regole democratiche. Di fronte al quale business is business. Ma, stavolta, i propri interessi li si anteporrebbe ai principi della democazia. Col rischio di pagare pesanti conseguenze a lungo termine.