Come abbiamo perso il fine ultimo dell’economia

L’economia civile ricorda che il vero scopo non è la crescita del Pil, ma la felicità pubblica e la giustizia sociale

Roberto Cirillo
L'immagine è stata realizzata dalla redazione di Valori.it utilizzando Midjourney
Roberto Cirillo
Leggi più tardi

L’economia è una scienza morale: benché questo accostamento possa far pensare a un ossimoro, quest’affermazione corrisponde ancora a realtà. Economia che, è bene ricordarlo, significa scienza della casa, dal greco, οἰκονομία. Casa, ovviamente, da intendersi non solo come la dimora privata di ciascuno ma estesa, come habitat, spazio della convivenza.

Nonostante quanto molti vorrebbero, non esiste una sola economia. In questo articolo ci limiteremo a esaminarne due in particolare: l’economia politica di oggi, che si identifica nel paradigma dell’economia neoclassica dominante, e l’economia civile. Avocare a sé il titolo di “civile” potrebbe provocare un’alzata di scudi, a voler dire: «Ché, intendi dire che noialtre economie non saremmo civili?».

Le origini: Antonio Genovesi e la prima cattedra di economia al mondo

L’economia civile nacque in Italia e, in particolare, a Napoli, in occasione di quella che è considerata la prima cattedra universitaria d’economia, non in Italia ma, addirittura, al mondo: quella ricoperta dall’abate Antonio Genovesi (alla Federico II di Napoli che è, tra le altre cose, la prima università laica, sempre del mondo). L’intento coltivato da Genovesi ha velleità pedagogiche: addivenuto all’importanza rivestita dell’economia nella vita delle persone, decide d’inaugurare una cattedra appositamente per diffonderla. E tiene corsi, aperti, liberi e in volgare, per aumentare il raggio della diffusione.

È un’epoca di grandi maestri e allievi, quali Filangieri e Cuoco. Il primo sarà un importante giurista europeo, il cui pensiero sul governo influenzerà le costituzioni illuminate (e illuministe, del par suo) oltreoceano. Un carteggio dimostra, infatti, che fu proprio lui a suggerire a Benjamin Franklin d’introdurre, in quella che è la prima Costituzione al mondo (1776), il diritto alla felicità. Cuoco, insieme ad altri, farà parte di quella ferita insanabile in cui perse la vita la meglio gioventù napoletana, con la fallita Rivoluzione del 1799 (a seguito della precedente, dal taglio popolare, di Masaniello: altrettanto finita male. Queste due ferite si trasmetteranno, secondo alcuni, nel codice genetico dei napoletani, fino ai giorni nostri, trasmesse in quelle che sono le “due” Napoli).

Qual è lo scopo dell’economia

Genovesi si interroga su quali siano lo scopo dell’economia e quello di un buon governo che dovrebbe aiutarla a prosperare. A differenza di Adam Smith (il padre – putativo e spesso travisato – dell’altro paradigma economico), per Genovesi lo scopo dell’economia non dovrebbe essere limitato al perseguimento della produzione della ricchezza (da cui il titolo dell’opera capitale dell’economista scozzese: “La ricchezza delle nazioni”). In base a questo solo parametro, infatti, si potrebbe dire che l’economia mondiale non è mai stata sana come ora: il Pil mondiale, infatti, è 111,3 miliardi di dollari, segnando una crescita costante (basti pensare che, se nel 2005 occorrevano 46 miliardi di dollari per essere il più ricco al mondo, oggi ne servono 920). 

crescita pil mondiale
Crescita del Pil mondiale dal 1960 al 2024 © Banca Mondiale

Che il Pil (quindi la ricchezza prodotta) non sia un indicatore sufficientemente affidabile del benessere è cosa nota ed è stato, in tal senso, oggetto di ampie e diffuse critiche, a partire dal suo stesso ideatore, Kuznets (che nel 1934 sosteneva che «il benessere di una nazione difficilmente può essere dedotto da una misurazione del reddito nazionale») a Bob Kennedy («misura tutto in breve, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta», dirà nel 1968), a Stiglitz. Sia perché i soldi non sono sufficienti a garantire la felicità, sia perché la ricchezza di per sé è il precipitato di azioni che nulla dicono su come sia stata perseguita (potrebbero essere illecite, illegittime o realizzati con mezzi antitetici ai nostri valori). Sia perché il Pil nulla riferisce neanche in merito a come questa ricchezza sia stata allocata, ovvero se la sua distribuzione sia equa o, invece, concentrata nelle mani di pochi, configurando asimmetrie, divari e disuguaglianze.

Il Pil non misura la felicità

Infatti, a oggi, il 10% più ricco della popolazione, possiede quasi i tre quarti della ricchezza mondiale, lasciando metà della popolazione mondiale quasi completamente priva di ricchezza (World Inequality Database, 2023). Gli 81 uomini più ricchi al mondo possiedono una ricchezza equivalente a quella della metà più povera del Pianeta. 81 individui pesano come 4 miliardi di persone (che inquinano più del resto della popolazione: nel 2019, lo 0,1 % più ricco degli Stati Uniti ha emesso 597 volte più della media del nucleo familiare di un Paese a basso reddito).

distribuzione pil mondiale
Distribuzione Pil mondiale fra la popolazione mondiale, 2023 © wid.world

Insomma, ricordano altri due premi Nobel dell’economia, Banerjee e Duflo, non bisogna «perdere di vista il fatto che il Pil è un mezzo e non un fine. Un mezzo utile […] specie quando crea occupazione o fa aumentare i salari, o rimpingua le casse dello Stato per poter distribuire di più. Ma lo scopo ultimo rimane […] migliorare la qualità di vita per l’individuo medio, e in particolare per chi se la passa peggio».

«E qualità di vita non significa semplicemente i consumi […] È vero che una vita migliore è anche avere la possibilità di consumare di più […] Un Pil più alto può essere un modo per offrire questa cosa ai poveri, ma soltanto uno tra i tanti, e nessuno può dare per scontato che sia sempre il migliore. Infatti, la qualità di vita varia enormemente tra un Paese a medio reddito e un altro […] Non c’è nulla […] che dimostri che un Pil pro capite più alto sia necessariamente auspicabile. Eppure […] perché fondamentalmente siamo convinti che le risorse possono essere ridistribuite, e saranno ridistribuite, cadiamo nella trappola di cercare sempre di fare tutto il possibile per rendere la torta più grande che si può […] cozza […] con tutte le cose che abbiamo imparato negli ultimi decenni […] la disuguaglianza negli ultimi anni è aumentata in modo spettacolare, con conseguenze devastanti per le società di tutto il mondo», hanno spiegato Banerjee e Duflo nel 2020.

Come abbiamo perso di fine la morale e la coerenza tra mezzi e fini in economia

Gli utilitaristi, ritenendo che misurare la felicità fosse qualcosa d’impossibile, adottarono un misuratore che potesse semplificare il calcolo, passando all’utilità. Ridurre l’economia a sola scienza del mezzo (ovvero la ricchezza/Pil, intesa come mezzo per poter arrivare alla felicità, una volta che ci si è liberati di quei bisogni di sussistenza) incurante del τέλος, il fine (appunto quello che rende una scienza morale) è anche un modo per renderla più scienza. Anzi, scienza positivista.

Per affermarsi come tale, secondo Zamagni, l’economia dovette abdicare alle altre sfere (morale, etica, filosofia), affrancandosi da esse aderendo al “Noma” (Non-overlapping magisteria) teorizzato fin dal 1829 da Whateley, in virtù del quale «i magisteri non si sovrappongono». Ovvero, per essere scienza l’economia non deve mescolarsi all’etica e alla politica.

L’altro lato della medaglia, però, è che si perde di vista non solo la morale ma anche la necessarietà di perseguire una coerenza fra i mezzi e i fini delle nostre azioni, dandoci modo di convivere con una dissonanza cognitiva e scindendoci in due: colui che massimizza, da persona razionale, i suoi mezzi (guadagna il più possibile) da colui che carezza dei fini (persegue uno scopo esistenziale, è un ricercatore di senso, come lo chiama Becchetti, assume posizioni rispetto al mondo in base a quelli che sono i suoi valori – come da titolo di questo giornale): razionale, sì, ma altamente dissociato.

L’eredità di Whately, infatti, venne raccolta da Wicksteed che affermò quanto gli economisti devono essere «interessati soltanto al “cosa” e al “come” e non al “perché”» delle azioni: una scissione più pretesa che reale, oziosa e faziosa, che persino von Hayek, nel ’44, avrebbe respinto, sostenendo che chi controlla i mezzi finisce, prima o poi, per determinare i fini.

Cos’è l’economia civile e perché non crede che occorra massimizzare ricchezza e consumi

L’economista civile non è così. Per prima cosa, non crede che la scienza economica debba massimizzare la ricchezza, individuale né nazionale, tantomeno i consumi. Come non crede che uno Stato buono s’incarichi di questo. In questo senso, si dà ragione a Malthus (!) quando afferma che «il dichiarato oggetto dell’indagine del Dr. Adam Smith è la natura e le cause della ricchezza delle nazioni. C’è un’altra indagine, tuttavia, forse anche più interessante che egli occasionalmente tratta […] mi riferisco all’indagine sulle cause che influiscono sulla felicità delle nazioni».

Non solamente, ma l’economia politica smithiana rischia d’esser strumentalizzata, massimizzando la ricchezza nazionale incurante delle modalità di perseguimento, per pervenire all’infelicità piuttosto che alla felicità collettiva, arrivando, il mezzo, a negare il fine cui era preposto, come indicato da un 26enne Marx: «Siccome una società, secondo Smith, non è felice dove la maggioranza soffre […] bisogna concludere che l’infelicità della società è lo scopo dell’economia politica […] gli unici ingranaggi che l’economia politica mette in moto sono l’avidità di denaro e la guerra tra coloro che ne sono affetti, la concorrenza» (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844).

La felicità di chi? Quella pubblica o quella dei privati?

Concetto aleatorio, discutibile, arbitrario, filosofico, non monolitico ma tutt’altro, che, per comodità, marginalisti e utilitaristi riducono a utilità perdendoci, nel mezzo, un mare di significato. Così come esiste più di un tipo di economia, esistono almeno due tipi, molto differenti, di felicità: l’una privata, l’altra pubblica. Per capire la differenza, Charlie Brown occorre si focalizzi non su cosa sia ma sul chi: la felicità di chi? «Tutti i nostri economisti si occupano non tanto, come Adam Smith, della ricchezza delle nazioni, quanto della felicità pubblica» in quanto «primo oggetto dei nostri desideri è senza fallo l’umana felicità», (Paolo Mattia Doria, 1709).

Per Genovesi e gli altri filosofi illuministi e umanisti, l’economia deve massimizzare la felicità (o, quantomeno, minimizzare l’infelicità: non è propriamente la stessa cosa): «niuno uomo potrebbe operare altrimenti, che per la sua felicità; sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l’altrui miseria; e se potete, e quanto potete, studiatevi di far gli altri felici […] È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri», (Genovesi, 1755).

La felicità che l’economia che si vuole civile deve perseguire è quella di tutti, il che già fa comprendere come, per esempio, il problema della redistribuzione della ricchezza sia incluso. Per definire questo tipo di felicità, gli economisti l’avrebbero chiamata, con buona pace di Friedman e i suoi Chicago boys (che applicarono le loro ricette neoliberiste, prima che nel resto del mondo, in Cile, collaborando con Pinochet, coerentemente con l’incoerenza mezzi/fini), “pubblica”: «In noi il desiderio maestro, e padre di tanti altri, è quello del nostro privato bene, della nostra particolare felicità […] di sfera più sublime, e di origine più nobile vi è un altro Desiderio, cioè quello del Bene della Società, del Ben Pubblico, o sia della Pubblica Felicità», (Muratori, 1749).

«La felicità privata di poche membra non farà sicuramente la felicità di tutto il corpo»

Filangieri offre la definizione finale: «La felicità pubblica non è altro che l’aggregato delle infelicità private di tutti gli individui che compongono la società. Allorché le ricchezze si restringono tra poche mani, allorché pochi sono i ricchi e molti sono gli indigenti, questa felicità privata di poche membra non farà sicuramente la felicità di tutto il corpo. Anzi, ne farà la rovina. Se le ricchezze dunque non solo sono inutili, ma perniciose ai popoli, il legislatore non avrà fatto tutto richiamandole nello Stato se non avrà pensato alla maniera di ben ripartirle», (Filangieri, 1782). 

E ancora: «Quando ogni cittadino in uno Stato può, con un lavoro discreto di sette o otto ore per giorno, comodamente, supplire a’ bisogni suoi e della sua famiglia, questo stato sarà il più felice della Terra […] In questo stato le ricchezze saranno ben distribuite; in questo stato finalmente non vi sarà l’eguaglianza delle facoltà, che è una chimera, ma l’eguaglianza della felicità in tutte le classi». Andando così ad anticipare il problema del divario fra le classi (che, in ottemperanza all’art. 3 della Costituzione, lo Stato dovrebbe contrarre andando ad abolire le discrepanze dovute a privilegi di nascita, ereditati senza alcun merito, per ripristinare un’uguaglianza non solo di forma ma anche nella sostanza) e d’un’uguaglianza intercensuaria, conferendo un’interpretazione sociale del perseguimento della felicità che può risultare solo da uno sforzo collettivo (D’Eramo, 2025).

La felicità è declinata in modo individualista e superficiale, ma può essere salvata dal “pubblico”

Se discettare di felicità, oggi, può far storcere il naso è perché è stata declinata in modo edonistico, individualistico, superficiale, materiale, fino a diventare l’identity brand di bevande zuccherine, il termine “pubblico” mette in salvo da questo rischio e invita a recuperare un tipo precedente di felicità: quello aristotelico o eudaimonico.

Un economista che debba cercare non solo di perseguire la ricchezza, ma anche di far sì che questa sia ripartita in modo che l’infelicità di tutti abbia a diminuirne, è un economista che non indulge nella finzione di negare a sé stesso che la casa in cui è abita è condivisa da altri (alcuni dei quali ancora di qua da venire, come le future generazioni). Al contrario, è consapevole dell’interdipendenza che lo lega agli altri per cui ha ben presente la sua natura aristotelica di animale politico (ζiον πολιτικόν). E nel paniere delle sue scelte non include solamente le sue preferenze ma anche le conseguenze delle proprie azioni sugli altri.

È chiamato ad assumere perciò posizioni valoriali, a riconoscere i dilemmi morali e valutare le ricadute delle proprie scelte, non limitandosi a un’analisi costi e benefici che vada a misurare solo la propria utilità ma anche lo svantaggio che potrebbe derivare per gli altri (le tristemente celebri esternalità negative). Se qualcuno ricorda il bel film tratto dal libro di Krakauer, il protagonista, McCandless, persegue un modello di felicità individualista (anche se non materiale) non riconoscendo il valore dei singoli incontri (i beni relazionali) ma concentrandosi su di sé, salvo pentirsi, quando ormai è tardi (succede sovente, “l’acqua l’insegna la sete” diceva Dickinson: l’assenza e la mancanza ci insegnano il valore di quanto avevamo).

into the wild
La felicità è reale solo se condivisa – Into the wild, S. Penn (2007)

Perché abbiamo perso quello slancio verso l’economia civile e la felicità pubblica?

Ma cos’è accaduto? Perché pochi, oggi, hanno dimestichezza con economia civile e felicità pubblica, magari pur frequentando facoltà d’economia, in Italia? È successa quella che Zamagni chiama “la notte del civile”. I marxisti sostengono che i libri non cambiano il mondo ma, da buoni pragmatici materialisti, lo cambia la prassi. Forse è così, forse no, forse entrambi.

Avviene quella che Pasolini avrebbe chiamato una mutazione antropologica: il modello antropologico sotteso all’economia civile viene sostituito da uno diverso, marcatamente più pessimista, i cui vettori sono (coi loro libri): Machiavelli, Hobbes e Mandeville. Il primo sostituirà al civile il politico, e affermerà la preponderanza dei fini sui mezzi (derogando a qualsiasi velleità di coerenza al loro interno), rivolgendosi al Principe più che al governo.

Hobbes, col suo homo homini lupus (cui Zamagni ribatte con il corrispondente dell’economia civile: homo homini natura amicus) alza il tiro, giacché non vede le persone come animali politici ritenendo che prima perseguano i propri vantaggi e poi la compagnia. I compagni vengono cercati per l’utilità che ci danno e non per istinto naturale (importante antitesi della motivazione intrinseca che caratterizza i beni – e non i malus – relazionali, vedi infra). Infine, ci si mette Mandeville il quale non solo sostiene che l’umano non è un animale civile ma che virtù come cultura ed educazione sono socialmente controproducenti perché frenano la crescita.

L’economia civile, tuttavia, come un fiume carsico, ogni tanto torna alla ribalta. Lo fa, in particolare, quando il paradigma neoclassico, che si affida perlopiù al mercato, ha qualche défaillance, incespica in una crisi, in un’aporia e rischia di mandare tutto il sistema gambe all’aria (1929, 2008, ecc.). Recentemente, questo paradigma così strano (così italiano, meridionale addirittura) è stato riesumato da alcuni economisti: Zamagni, Bruni e Becchetti, ma non solo.

La felicità “segue” il reddito solo fino a un certo punto: il celebre paradosso di Easterlin

È stato rispolverato, in particolare, per risolvere il celebre paradosso di Easterlin il quale, anch’egli, aveva notato che il reddito pro-capite continuava ad aumentare e aveva chiesto alle persone se fossero più o meno felici. Gli economisti, utilitaristi e razionali, neoclassici, si sarebbero aspettati di sì, e invece lui aveva scoperto che reddito e felicità aumentano insieme fino a un certo punto per poi stabilizzarsi e, addirittura, decrescere.

Paradosso di Easterlin
Paradosso di Easterlin

Storicamente, anche le nazioni avevano visto il loro Pil aumentare nel tempo ma, la felicità dei loro cittadini, crescere proporzionalmente e poi, sorprendentemente, decrescere (in particolare intorno agli anni Sessanta negli Stati Uniti).

reddito e felicità negli stati uniti bartolini
Reddito e felicità negli Stati Uniti fra il 1946 e il 1996 © Stefano Bartolini, 2013

La spiegazione (oltre a quanto sopra riportato sui limiti del Pil e della ricchezza privata come parametri coi quali approssimare il benessere, come sollevato da Banerjee e Duflo, sopra) si deve allo psicologo Kanheman (Nobel 2002 per l’economia) che scopre che quel tipo di felicità non è pubblica, ma privata. E, infatti, viene perseguita massimizzando beni privati (consumi e ricchezza), la cui felicità (impropriamente chiamata tale: sarebbe più corretto far riferimento a essa come soddisfazione) ha il fiato corto a causa di tre effetti treadmill (o da tapis roulant).

I consumi, l’adattamento edonistico e i non-luoghi come l’e-commerce: il sistema ci rende criceti

La soddisfazione derivante dal consumo, infatti, è posizionale: un oggetto mi dà felicità quanto meno è diffuso in giro (la differenza fra avere una Ferrari o una Fiat 126), e la soddisfazione che me ne deriva decresce col tempo (la felicità che mi procura il nuovo videofonino al primo giorno, per un effetto di abitudine, non sarà mai uguale a quella derivante dal suo centesimo giorno d’uso): è l’adattamento edonistico.

Per ovviare l’effetto transeunte di questa felicità, ovviamente, privata (il consumo – forse l’ultimo rituale rimasto all’uomo moderno, che si esercita in non-luoghi quali cattedrali desacralizzate, come i centri commerciali, o, adesso, a casa, con un click – è un atto individuale e non collettivo e, solitamente, si consuma per sé e non per altri), il sistema economico attuale aiuta rimpolpando l’offerta di beni consumabili e rendendo quelli acquisiti, inutili, a una velocità accelerata (grazie al fenomeno dell’obsolescenza programmata).

Da cui il nome degli effetti: il consumatore, infatti, se avveduto, si rende conto di trovarsi su una specie di ruota da criceto, inseguendo un punto di soddisfazione che, come l’utopia di Galeano, non raggiunge mai. Non solo: non si avvinca neanche, perché la sua è una corsa sul posto. Un Sisifo anche lui, quindi, ma molto infelice rispetto a quello di Camus.

Lavoriamo di più, per guadagnare di più per comprare un rasoio con cui raderci più in fretta

Il padre della bioeconomia, Georgescu-Roegen, ha definito questo fenomeno circumdrome del rasoio (1972): lavoriamo di più, per guadagnare di più, per comprare un rasoio con cui raderci più in fretta, per avere più tempo per guadagnare di più, per comprare di più, ecc. Questa corsa continua è il motivo della frustrazione quando si persegue solo un aumento della propria ricchezza (e quindi si punta solo a raggiungere curve di consumo maggiori).

Un altro economista, Scitovsky, per spiegare questa distorsione, ha scoperto altri beni che, non essendo economici, posizionali, o privati, sfuggono alla logica fin qui descritta: i beni relazionali (1976). Contemperare le relazioni e, quindi, le condizioni degli altri nelle proprie scelte, vuol dire che la felicità che si vuol massimizzare è da intendersi pubblica come la volevano i padri dell’economia civile settecenteschi. Significa che lo scopo nostro non si limita a massimizzare il Pil ma preoccuparsi che venga equamente distribuito. Che la nostra felicità viene intaccata dall’infelicità altrui e che, quindi, non è logico massimizzare la propria pretendendo d’esser indifferenti da quella degli altri. Significa concepirsi come animali politici ma anche empatici e simpatetici. 

Perché in alcuni Paesi meno ricchi c’è più felicità collettiva rispetto alle grandi potenze economiche

Complicando l’equazione della felicità con i beni relazionali, e con la distinzione fra felicità privata e pubblica, diventa maggiormente comprensibile perché i Paesi che si posizionano in classifica fra i posti più alti quando si guarda alla ricchezza, vengono scalzati da Stati meno avvantaggiati economicamente quando si va a parametrare la felicità collettiva.

I beni relazionali sono descritti da una serie di caratteristiche che, fino a poco fa, li preservava dal ricadere in logiche mercantilistiche con le derive che abbiamo già visto per i beni economici, che si prestano a logiche consumistiche e obsolescenza programmata. Purtroppo, l’avvento dei social media e delle relazioni interpersonali telematiche, come descritto da Bauman, hanno fatto sì che anche un bisogno genuino e non indotto (non artificiale, non uno pseudobisogno creato dal mercato per insufflare nuovo respiro alla domanda in modo da creare, parimenti, un’offerta che li soddisfi) quale quello di socialità cada sotto la falce della logica privatistica.

I beni relazionali (studiati in sociologia da Donati e alla base del relazionalismo di Morelli, e la cui bontà è stata confortata neurologicamente dalle dinamiche di Rizzolatti), infatti, comportano sempre una componente di rischio trovando fondamento nella reciprocità e nella fiducia verso l’altro (la fides pubblica degli economisti civili: la corda che ci lega e unisce l’uno all’altro): altro che può, in qualsiasi momento, interrompere unilateralmente la relazione e, quindi, come sostiene Bruni, ogni relazione sottende una ferita potenziale, e richiede un’apertura da una delle parti che, come un trapezista che si lanci nel vuoto senza rete (per parafrasare Becchetti), fronteggia il rischio d’esporsi a esser respinto.

Il peso della declinazione “social” delle relazioni, che diventano virtuali e assimilabili a oggetti

Questo rischio viene immunizzato nella Rete (internettiana, s’intende): esser ghostati da uno sconosciuto anonimo on line fa molto male anche nella realtà non virtuale. I beni relazionali digitali, inoltre, non presentano costo opportunità di quelli reali non implicando una vera scelta di destinare il proprio tempo a una persona piuttosto che a un’altra (on line possiamo accumulare conversazioni contemporaneamente mentre facciamo altre cose: il “prezzo” è ben diverso dal prendere un caffè, vis-à-vis, con qualcuno… esser scelti così, infatti, è molto più lusinghiero e comporta anche lo sfruttamento dei canali non verbali).

I beni relazionali virtuali, inoltre, sono tali da potersi consumare scorrendo la bacheca e scegliendo, in base alla preferenza del momento, quale rapporto interpersonale consumare in modo impersonale, con la stessa disinvoltura d’un oggetto usa e getta, trattando ciascuno non come fine in sé, ma come mezzo per un fine (distrarsi, sentirsi vidimati, essere ‘visti’, sfogarsi) altro: i rapporti finiscono così per esser sminuiti e perfettamente sostituibili fra loro (di nuovo si può abdicare alla coerenza mezzi/fini).

Online siamo qualunque cosa: identità liquida che fatalmente diventa disimpegno. Dobbiamo riscoprire noi stessi, proprio come l’economia civile

Online siamo liberi di essere tutto e il contrario di tutto, rispondendo a quel bisogno d’identità liquida che si sposa tanto bene col disimpegno. Secondo Lacan, l’altro è colui che detiene quel tassello che ci appartiene e che ci è precluso. Solo tramite lui ci è possibile ri-conoscerci (letteralmente), ovvero tornare a conoscerci, tramite il suo sguardo, per quel che siamo realmente, ribadendo quell’interdipendenza da cui l’economia ha mosso i suoi passi iniziali, e che il modello antropologico pessimista dell’uomo razionale, da paradigma neoliberista, nega artificiosamente.

Ribaltare questo paradigma in quello proprio dell’economia civile, rivalorizzarla e risignificarla (conoscerla, impararla, studiarla, diffonderla ma, soprattutto, quantomeno, insegnarla, se non altro qui, in Italia, dov’è stata ideata), significa ri-appropriarsi della nostra natura politica, improntata all’empatia, consapevole della nostra natura interdipendente, travalicando separazioni di sapere artificiose in un mondo globalmente olistico che solo un approccio intersezionale e olistico può aspirare a comprendere nella sua complessità.

L’alternativa è languire in quell’homo oeconomicus che Sen (altro Nobel, 1998) irride come idiota sociale (ovvero, che vede solo sé stesso), egoriferito e autistico nella sua miopia e che, più di tutto, sciupa la sua vita inseguendo false chimere (livelli di consumo irraggiungibili) dimentico che il vero obiettivo cui puntare è una propria, piena, fioritura del proprio potenziale umano. Autorealizzandosi insieme a e non a dispetto degli altri. In una visione comunitaria e non immunitaria.

Nessun commento finora.

Lascia il tuo commento.

Effettua il login, o crea un nuovo account per commentare.

Login Non hai un account? Registrati