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Cosa sono le terre rare e perché da loro dipende il nostro futuro

Non sappiamo i loro nomi, ma li maneggiamo ogni giorno. Eppure il futuro sostenibile dell’umanità è legato a doppio filo ai Rare Earth Elements

Particolare di una tavola periodica degli elementi chimici. Il Neomidio è una delle 17 terre rare, Rare Earth Elements (REE) © David Freund/iStockphoto

Su di loro puntano la chimica verde e l’economia rinnovabile. Sono indispensabili per la produzione di energia eolica, solare ed elettrica e per le comunicazioni ottiche. Ma anche per l’industria aerospaziale e militare. Soprattutto, le cosiddette «terre rare» sono ormai per antonomasia, i metalli delle nuove tecnologie. Eppure la loro filiera è ancora lineare e il riciclo raggiunge a stento l’1% della produzione mondiale. Estrarle e raffinarle ha inoltre altissimi costi ambientali e sociali. E i loro listini di vendita non sono soggetti a mercati regolamentati. «Sono risorse strategiche ma non sono rinnovabili», ha ricordato recentemente il ministero dell’Industria e dell’Information technology del maggior produttore al mondo, la Cina. Da sola detiene oltre il 62% della produzione globale mineraria, circa il 90% della produzione e il 36.6% delle riserve mondiali. Seguita dagli Stati Uniti con il 12,3%, il Myanmar con il 10,5% e l’Australia con il 10%. 

I magnifici 17, insieme a cobalto&Co 

Non ne siamo ancora pienamente consapevoli. Ma il futuro sostenibile dell’umanità è legato a doppio filo proprio ai Rare Earth Elements (REE), per le loro preziose proprietà elettrochimiche, magnetiche e ottiche. Sconosciuti ai più, sono 17 metalli presenti nella tavola periodica degli elementi chimici, con colori che variano dal grigio all’argento. Lucenti, malleabili e duttili. Includono lo scandio (Sc) e l’ittrio (Y ), più l’intera serie dei lantanidi, gli elementi chimici dal numero atomico dal 57 al 71. Nell’ordine: lantanio (La), cerio (Ce), praseodimio (Pr), neodimio (Nd), promezio (Pm), samario (Sm), europio (Eu), gadolinio (Gd), terbio (Tb), disprosio (Dy), olmio (Ho), erbio (Er), tulio (Tm), itterbio (Yb), lutezio (Lu). Tutti scoperti in epoca relativamente recente: il primo, il terbio nel 1782 in Svezia. Gli altri tra il 1800 e il 1900, ad esclusione del promezio, ottenuto artificialmente nel 1945.  

A loro si aggiungono, ma attenzione a non confonderli, i cosiddetti  «raw materials» ovvero le materie prime critiche che comprendono tra gli altri, i metalli ferrosi e i «non metalli» più noti, come il litio, il cobalto, il nichel, altrettanto indispensabili per le tecnologie green. Anch’essi causa ancor più nota di devastazione ambientale e di sfruttamento delle popolazioni nei Paesi dove sono situati i grandi giacimenti. Ce lo ricorda la clamorosa causa giudiziaria in corso negli Stati Uniti promossa da quattordici famiglie congolesi e dalla International Rights Advocates contro le più importanti multinazionali tecnologiche al mondo tra cui Tesla, Apple, Google e Microsoft

Dagli smartphone ai pannelli solari: ecco dove sono le terre rare 

Delle terre rare, dunque, non conosciamo i nomi. Eppure ognuno di noi le maneggia ogni giorno. Sono infatti all’interno degli smartphone, nei touchscreen, nelle lampade, negli hard disk dei computer. Ma sono anche alla base di fibre ottiche e laser, di moltissime apparecchiature mediche, nelle batterie per le auto elettriche. Costituiscono magneti permanenti, sensori elettrici, convertitori catalitici indispensabili per automobili, turbine eoliche, pannelli fotovoltaici. E su di loro è basata tutta l’innovazione legata all’industria medica, militare, automobilistica. Oltreché alla siderurgia e al settore petrolifero. 

Il rovescio della medaglia è che la loro presenza in apparecchiature complesse come quelle elettriche ed elettroniche si contrappone, invece, alla mancanza di infrastrutture adeguate per la raccolta e il recupero. È per questo che il tasso di riciclo delle terre rare è minore dell’1%. 

Le terre rare non sono rare, ma la loro estrazione è altamente inquinante 

A dispetto del loro nome, dovuto alla loro difficile identificazione, rispetto agli altri metalli, sono in realtà ben diffuse nella crosta terrestre. Il cerio è presente con la stessa abbondanza del rame e due tra gli elementi più rari della serie (tulio e lutezio) sono 200 volte più abbondanti dell’oro. Ma a differenza del metallo prezioso, non esistono  «giacimenti» di sole terre rare. Queste ultime sono diffuse in natura in un centinaio di minerali che le contengono in bassissime concentrazioni. Associate ad altri elementi, come il calcio, berillio, ferro, alluminio.  Sotto forma di ossidi, carbonati, silicati, fosfati. 

Da qui la necessità di processi di estrazione e raffinazione molto complessi che richiedono, per separare i singoli elementi, l’utilizzo di potenti solventi come acido cloridrico o l’acido nitrico. Processi che presentano un drammatico impatto ambientale, con il conseguente inquinamento di suoli e falde acquifere. E che finora sono stati perlopiù realizzati in Cina. Un accentramento pericoloso che ha imposto, prima agli Stati Uniti e ora soprattutto all’Europa, totalmente dipendente da entrambe superpotenze, a cambiare politiche e strategie

Il primato della Cina, il maggior produttore mondiale legale. E illegale

La Cina continua a dominare l’offerta globale di terre rare, anche se dopo la frenata alle esportazioni verso il Giappone e gli USA con la conseguente bolla speculativa nel 2010, la produzione di REE è tornata a crescere anche negli Stati Uniti. Crescita fortemente voluta da Donald Trump e dal Pentagono. Attualmente, secondo le ultime stime del National Minerals Information Center degli Stati Uniti, la produzione globale è salita a 210mila tonnellate di ossido di terre rare. Un aumento dell’11% rispetto al 2018. Negli Stati Uniti la produzione interna dei minerali raffinati, tutti esportati, è aumentata a 26mila tonnellate, il 44% in più rispetto al 2018.  

Mentre, secondo il ministero dell’Industria cinese, le quote di produzione mineraria e di separazione per il 2019 sono state rispettivamente di 132mila e 127mila tonnellate. La Repubblica popolare cinese ben consapevole, fin dai tempi di Deng Xiaoping, del proprio primato anche nell’importazione e nella lavorazione, sta investendo su tutta la catena di produzione. Dalla progettazione, con il più alto numero di brevetti registrati al mondo, alla regolamentazione di un mercato fino a pochissimo tempo fa, fuori controllo. Secondo un rapporto della Xinhua News Agency, nel 2019, nonostante la quota ufficiale di 130mila tonnellate estratte, l’effettiva quantità mineraria ha superato di gran lunga tale cifra. Prova che la maggior parte delle terre è stata estratta illegalmente. 

I listini «fuori mercato»

Se il commercio dei metalli convenzionali avviene in piazze borsistiche riconosciute, non esistono mercati ufficiali per gli elementi delle terre rare. Esistono delle quotazioni indicative, come quelle fornite dalla stessa National Minerals Information Center. Tra quelli con le quotazioni più alte a gennaio 2020, secondo l’Istituto per le terre rare e i metalli svizzero, lo scandio a 3.486,87 dollari al kg, il lutezio al 647,15 dollari/kg e il terbio a 645 dollari/kg. Sta quindi alle singole aziende accordarsi direttamente con i raffinatori. Il mercato delle terre rare, sia ossidi che metalli, è totalmente libero e soggetto a possibili ed enormi fluttuazioni.

Motivo per cui è sempre il sistema cinese a influenzare i listini. E a condizionare il mercato. Anche per questo, negli ultimi anni stanno nascendo associazioni tra produttori per lo sviluppo di un’industria delle terre rare e un’economia circolare sostenibili, come la REIA (Rare Earth Industry Association), che associa produttori e competenze accademiche europee insieme ad associazioni nazionali cinesi, giapponesi e statunitensi. 

La «guerra fredda» in Artico e il ruolo della Commissione Europea 

Il controllo delle terre rare è basilare per il futuro di tutte le economie green. Anche per questo si spiega la «guerra fredda» sino-americana in atto nell’Artico per l’accaparramento di nuovi giacimenti, più facilmente accessibili con il disgelo del permafrost. E che coinvolgono Canada, Alaska, Scandinavia e Russia, oltre che la Groenlandia

Così si spiega l’intervento della Commissione Europea lo scorso settembre, con l’annuncio della nascita della nuova l’Alleanza europea per le materie prime, «per costruire la resilienza e l’autonomia strategica sulle terre rare». Azione che mira a identificare barriere, opportunità e investimenti in tutta la filiera, dall’estrazione mineraria al recupero di rifiuti. Un tentativo per intervenire sulla sostenibilità e sull’impatto sociale globale.