Franco CFA, retaggio coloniale ma anche garanzia per chi lo adotta
La moneta adottata da 14 Stati africani accusata di fare gli interessi di Parigi e limitare lo sviluppo delle ex colonie. Ma la realtà è più complessa
Il franco CFA è uno strumento al servizio esclusivo della Francia? È utile solo a Parigi per tutelare i propri interessi a danno dei Paesi africani? Si tratta di una forma di colonialismo iscritta nel solco della “Françafrique”?
Il franco CFA: vantaggi e svantaggi per le nazioni africane
La moneta, adottata oggi da 14 nazioni, è da anni oggetto di polemiche a livello locale così come nella stessa Francia. E da alcuni mesi il dibattito è diventato internazionale, dopo che alcuni esponenti politici italiani hanno gettato benzina sul fuoco.
Ma qual è la realtà? Per comprenderlo, è bene innanzitutto fare un grande passo indietro. Fino al 1945, quando dopo gli accordi di Bretton Woods si decise di creare un’unione monetaria. Le 14 nazioni che ne fanno oggi parte sono ripartite in seno all’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (UEMOA) e alla Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC). Alle quali si aggiungono le Comore. In tutto sono circa 155 milioni di persone ad usare il franco CFA.
L'avenir du franc CFA : un dilemme monétaire, entre stabilité et croissance https://t.co/mwGVHDhhNH pic.twitter.com/vCGT8y3LER
— Les Echos (@LesEchos) August 29, 2016
Al momento della sua creazione, l’acronimo significava “Franco delle colonie francesi d’Africa”. Oggi invece si parla di “Franco della Comunità finanziaria dell’UEMOA” e di “Franco della Cooperazione finanziaria dei Paesi CEMAC”. La valuta è ancorata all’euro secondo una parità fissa decisa dalla Francia. In cambio, i Paesi che l’adottano sono obbligati a depositare il 50% delle loro riserve valutarie presso il Tesoro di Parigi.
La Banque de France paga interessi ai Paesi africani più alto dell’attuale tasso di mercato
Ma numerosi economisti ricordano un fatto certamente non secondario: Parigi non guadagna denaro grazie al 50% delle riserve. Questa somma viene infatti custodita dalla banca centrale francese.
Il governo di Parigi, in altre parole, non può disporne. Inoltre, ogni tre anni la Banque de France versa ai Paesi in questione degli interessi (ad un tasso minimo fissato nel 2013 allo 0,75%).
Il che rappresenta oggi un guadagno non indifferente, dal momento che il tasso di mercato, attualmente, è decisamente più basso.
È sempre nella capitale francese che sono stampate le banconote, che poi vengono inviate migliaia di chilometri più a Sud, alle banche centrali dei singoli stati. Posta in questi termini, sembra si tratti davvero di un retaggio coloniale con vantaggi a senso unico. La verità è però che il sistema garantisce alle nazioni africane la possibilità di scambiare il franco con qualsiasi altra divisa.
[@CheckNewsfr] Non, la France ne pille pas chaque année «440 milliards d'euros aux Africains à travers le franc CFA» https://t.co/2W2OVQ5CPa
— Libération (@libe) January 29, 2019
Inoltre, essendo il franco CFA agganciato all’euro, la sua stabilità è garantita. L’indicizzazione fa sì poi che la moneta sia particolarmente forte, il che facilita le importazioni, per le nazioni che la utilizzano. Al contrario, però, sono i prodotti locali esportati all’estero ad essere penalizzati.
L’economista del Benin Kako Nubukpo: «È schiavitù monetaria»
Gli oppositori della moneta – per questa ragione, e non solo – non lesinano critiche. In prima linea, da tempo, c’è l’economista del Benin Kako Nubukpo, che ha parlato senza mezzi termini di «schiavitù valutaria». Puntando il dito proprio contro l’obbligo di trasferire la metà delle riserve al Tesoro francese. «Esso impedisce le trasformazioni strutturali che sarebbero necessarie nel Continente. È per questo che la questione della sovranità monetaria è cruciale», ha spiegato.
Dans le match France Italie sur le CFA qui se joue depuis une semaine, Kako Nubukpo, professeur de Sciences Economiques à l’université de Lomé, craint fort que l’Afrique soit la grande perdante. #FrancCfa https://t.co/9nHWa40NwW
— Le Monde Afrique (@LeMonde_Afrique) January 28, 2019
Nubukpo si domanda anche perché le banconote non siano fabbricate direttamente in Africa. «Il meccanismo – ammette però lo stesso esperto – permette di godere di un’assicurazione contro i difetti della governance economica africana».
#Afrique Indépendance économique.Vivement la fin du franc CFA pic.twitter.com/oenh663KSv
— 𝒁𝑨𝑩𝑫𝑨 (@Zangbeniweend) January 25, 2019
Anche l’economista guineano Carlos Lopes, quando era vice-segretario generale dell’Onu, aveva criticato aspramente il franco CFA. «Il meccanismo – aveva spiegato in un’intervista alla radio RFI– deve essere dinamico». Al contrario, oggi, è incapace di «rispondere al sistema economico globale». E sebbene gli scambi internazionali siano importanti, «i consumi interni sono ormai la componente più importante della crescita» nei Paesi che adottano la moneta.
Anche per i Paesi CFA vige il tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil
Inoltre, il quotidiano economico Les Echos sottolinea quella che definisce «una delle principali aggravanti». Ovvero il fatto che sia stata imposta «in modo arbitrario la disciplina di bilancio in vigore nell’Unione Europea». In altre parole, i paesi membri del franco CFA sono tenuti – ad esempio – a rispettare il vincolo del 3% nel rapporto tra deficit e Pil. Esattamente come disposto per economie decisamente diverse come quelle della Francia, della Germania o dell’Italia.
Retrouvez mon analyse dans Les Echos ! Le franc #CFA : un " euro tropical " qui importe les règles de Maastricht en Afrique. https://t.co/LUzLH9GLkf
— Loup Viallet (@LoupViallet) April 9, 2018
Qualora i Paesi africani dovessero eccedere tale percentuale, scatterebbero delle sanzioni. «L’imposizione arbitraria di un tetto alla spesa pubblica – prosegue il giornale – frena i finanziamenti alle politiche governative, già esigui. Tutto ciò riduce le capacità di intervento e anche il peso politico, economico e sociale del potere pubblico».
Il vincolo del 3% è stato concepito infatti per nazioni molto sviluppate come la Germania (328,7 miliardi di euro di spese pubbliche nel 2017). Difficile pensare che possa essere applicato in modo identico a nazioni macroeconomicamente quasi agli antipodi. La Costa d’Avorio, ad esempio, è tra i paesi dell’Africa francofona, che presentano i dati finanziari migliori. Eppure, tra i suoi 24 milioni di abitanti il tasso di povertà è ancora del 46,3% (dato del 2015).
Gli interessi francesi (economici e non solo) in Africa: da Total a Bolloré
E allora per quale ragione il sistema è ancora in piedi, a più di 70 anni dalla sua introduzione? Secondo i media transalpini, esso permette di garantire un quadro sicuro in una zona nella quale la Francia ha molti interessi economici e legami commerciali. Ciò «facilita gli investimenti delle imprese francesi in Africa».
Per la Francia, in ogni caso, la tutela degli interessi strategici è evidente. Dal punto di vista militare, il giornale La Dépêche sottolinea che «in 30 anni sono stati effettuati circa 50 interventi militari». In termini economici, inoltre, secondo il Consiglio francese degli investitori in Africa (CIAN), sono presenti «mille imprese, con 80mila collaboratori». Il tutto per un giro d’affari pari a 40 miliardi di euro all’anno.
Nel continente, tuttavia, la Francia deve difendersi dalla Cina. La quota di mercato è scesa al 5,5%, mentre quella della nazione asiatica è salita a più del 20%.
Il tutto in un periodo in cui gli investimenti cinesi in Africa sono arrivati a 60 miliardi di dollari. «Infrastrutture, telecomunicazioni, energia, gestione dell’acqua sono i settori in pieno boom sui quali punta Parigi», aggiunge La Dépêche.
Nel franco CFA anche nazioni mai colonizzate. E c’è chi è uscito e rientrato
Basti pensare a grandi gruppi come Total, il cui 31% della produzione proviene proprio dalle nazioni africane. O a Bolloré, colosso del settore dei trasporti e della logistica, che è presente in 45 Paesi del continente.
Bolloré sotto inchiesta: sospetti favori in Africa per ottenere concessioni portuali
Il franco CFA, insomma, può essere visto da più angolazioni. E ha vantaggi come svantaggi. E anche l’accusa di rappresentare unicamente un retaggio coloniale non è esatta. Va detto infatti che non tutte le ex colonie o gli ex protettorati francesi hanno concluso accordi di cooperazione monetaria con Parigi.
A partire dalla propria indipendenza, nel 1958, la Guinea ha ad esempio creato il proprio franco. Esattamente come hanno fatto il Marocco (1959) e l’Algeria (1963). Anche il Mali ha fatto la stessa scelta, utilizzando per 22 anni una moneta nazionale. Nel 1984, tuttavia, mentre la sua economia stava crollando il governo di Bamako decise di tornare al franco CFA. Proprio al fine di proteggersi ed evitare il tracollo…
L'Invité Afrique – Hassoumi Massaoudou (Niger): le franc CFA «n'est pas un franc colonial ! » https://t.co/qU7B3vcGAp pic.twitter.com/ZcILPES6Bz
— RFI Afrique (@RFIAfrique) January 28, 2019
La Mauritania e il Madagascar, poi, sono rimasti nell’unione monetaria soltanto fino al 1972 e al 1973. Mentre due Stati che non sono mai stati colonizzati dalla Francia hanno deciso di aderire liberamente alla valuta. Si tratta della Guinea equatoriale, che lo ha fatto nel 1985, e della Guinea-Bissau, nel 1997.