Gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti: come non fare la transizione ecologica
Il gas naturale liquefatto in arrivo dagli Stati Uniti ci affrancherà da quello russo, ma renderà irraggiungibili gli obiettivi climatici
Nella rosa delle alternative al gas russo, c’è una fonte di energia che sta vivendo il suo momento di gloria: il Gnl, il gas naturale liquefatto americano. Da un punto di vista geopolitico, sostituire il gas russo con quello degli Stati Uniti ha una logica indiscutibile: Washington è un partner affidabile. E le sue riserve di gas sono immense. Da un punto di vista climatico, invece, la corsa a tale fonte, che ci arriva via nave attraverso l’oceano, è una storia da manuale su come non fare la transizione energetica.
Perché il gas naturale liquefatto è una fonte fossile non sostenibile
Il Gnl, infatti, è una fonte fossile, che attraversa lunghe distanze, con un ciclo di vita di emissioni non sostenibile e che ci spinge esattamente dove l’IPCC ci dice di non andare. Cioè verso il lock-in tecnologico. Per assorbire 50 miliardi di metri cubi all’anno (questa la quota di “disintossicazione” dal gas russo con quello americano prevista dall’Unione europea) non bastano le infrastrutture attuali. Dovremo investire in tecnologie di rigassificazione. Che, per rientrare di costi e lunghi contratti vincolati, ci imporrano il loro uso ben oltre la data di scadenza del gas come energia di transizione.
Non tutto il gas è uguale, infatti. E il Gnl ha un impatto ambientale e climatico peggiore di quello russo. Secondo il centro studi francese Carbone 4, comporta emissioni equivalenti di CO2 pari a due volte e mezzo quello che arriva via gasdotto. Per il gas liquefatto il processo che va dal giacimento alla centrale è d’altra parte estremamente lungo e articolato. E ad ogni passaggio vengono aggiunti gas ad effetto serra nell’atmosfera.
Dall’estrazione alla rigassificazione: un processo lungo e articolato
Ci sono l’estrazione e il processo di trasporto verso il terminal di esportazione. Ai quali segue la liquefazione, necessaria per esportarlo in modo economicamente conveniente attraverso le navi gasiere. Il gas viene raffreddato a -162 gradi centigradi e convertito in forma liquida. Poi c’è il viaggio: il 40 per cento delle emissioni del traffico marittimo internazionale è proprio dipeso dallo spostamento di fonti fossili da un porto all’altro del mondo. Una volta arrivato a destinazione, c’è il processo di riscaldamento e rigassificazione. Da questi terminal (tutti i grandi Paesi europei ne stanno costruendo di nuovi, Italia compresa) il gas poi viaggia verso la destinazione d’uso finale.
Allungare il viaggio del gas e i suoi passaggi prima della sua combustione finale ha poi l’effetto di moltiplicare le occasioni di flaring. Si tratta di perdite accidentali o intenzionali di metano, che sono una delle principali criticità di questa fonte di energia. Un problema non di poco conto, perché il metano è particolarmente nocivo nel breve termine: resiste meno della CO2 in atmosfera, ma nei suoi primi due decenni è 80 volte più climalterante.
Un impatto che si avvicina al carbone nel primo decennio post-utilizzo
Secondo il rapporto Sailing to Nowhere del Natural Resources Defense Council americano puntare sul Gnl come stiamo facendo chiude la possibilità di limitare l’aumento della temperatura media globale entro gli 1,5 gradi centigradi entro fine secolo, rispetto ai livelli pre-industriali. Secondo questa ricerca, la fase di liquefazione, trasporto e rigassificazione conta per il 21 per cento del totale delle emissioni. Se prendiamo il primo decennio post-utilizzo, il Gnl ha un impatto vicino a quello del carbone, del quale ha solo il 27 per cento dell’effetto climatico in meno.
Quello americano ha una proiezione di 213 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra annue, l’equivalente dell’utilizzo di 45 milioni di automobili a benzina. Un impatto sufficiente, da solo, a neutralizzare tutta la riduzione di emissioni registrata dagli Stati Uniti nel decennio scorso. I suoi costi sociali e sanitari sono stati 8,1 miliardi di dollari nel 2021, arriveranno a 30,5 miliardi nel 2030. Sembra l’eco di una delle conclusioni della terza parte del Sesto rapporto dell’IPCC sulla mitigazione: non effettuare la transizione avrebbe costi economici molto più alti che farla.
Dagli Stati Uniti potrebbero arrivare 14,8 miliardi di metri cubi di gas al giorno
Il gas naturale liquefatto è ovviamente anche una formidabile macchina da profitti per l’industria fossile nordamericana. Le importazioni via gasiere erano praticamente inesistenti fino al 2014, oggi gli Stati Uniti hanno sette terminal per l’esportazione e otto sono in costruzione. Entro la fine di quest’anno secondo l’IEA avranno la più grande capacità di traffico di gas al mondo.
Nel 2019 le esportazioni valevano 1.760 miliardi di metri cubi, con una crescita del 600% rispetto al 2016. Nel 2030 saranno 5.750 miliardi di metri cubi. A regime, gli Stati Uniti potranno esportare 14,8 miliardi di metri cubi di gas al giorno. Pari al 110% del consumo domestico quotidiano di tutti i cittadini americani. E a questa conta di profitti e danni dobbiamo aggiungere quelli del fracking, la fratturazione idraulica delle rocce da scisto. Ovvero la principale fonte di questa ricchezza fossile per gli Stati Uniti. Ma che provoca la contaminazione delle falde acquifere, alti consumi di risorse idriche, problemi sanitari vicino ai siti di estrazione, devastazione di flora e fauna e rischi di terremoti.
Le esportazione di gas liquefatto sono prevedibilmente arrivate ai massimi di sempre nel mese di marzo. Il 65 per cento è arrivato in Europa, il 12 per cento in Asia. Per dirla con un efficace titolo di Bloomberg, «gli Stati Uniti stanno esportando ogni molecola possibile di gas liquefatto». Agli effetti ecologici si penserà poi, evidentemente.