Salario dignitoso: perché serve una giornata mondiale

Il 25 settembre è la Giornata mondiale del salario dignitoso. Nella moda e non solo, milioni di lavoratori vivono ancora con salari da fame

© Clean Clothes Campaign

Quando parliamo di sostenibilità della moda sono diverse le immagini che ci vengono in mente. Il deserto di Atacama, in Cile, ricoperto di rifiuti tessili. Distese di campi di cotone inondati di pesticidi. Tessuti sintetici, prodotti dalla lavorazione del petrolio, che rilasciano microplastiche nell’ambiente. Fiumi asiatici dai colori innaturali a causa delle sostanze chimiche usate per trattare e colorare le fibre e i tessuti prima che diventino abiti. Migliaia di voli cargo che portano vestiti da un angolo all’altro del Pianeta, neanche fossero prodotti deperibili.

La moda ha un impatto ambientale e climatico enorme ed è una delle industrie più inquinanti al mondo. Si stima che tra il 2% e l’8% delle emissioni globali di CO2 sia da attribuire alla moda. E, se continua a questi ritmi, entro il 2050 il settore consumerà un quarto del “carbon budget” globale che abbiamo a disposizione per rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, ovvero limitare l’aumento della temperatura media globale a 2 gradi centigradi entro la fine del secolo. Per non parlare, poi, del consumo di risorse: per produrre una t-shirt di cotone occorrono 2.700 litri d’acqua. Cioè quanto una persona beve in 2 anni e mezzo. E l’industria tessile usa 8mila sostanze chimiche, molte tossiche: tinture, sbiancanti, solventi.

La Giornata mondiale del salario dignitoso: origini e significato

Eppure, non basta che un capo di abbigliamento sia prodotto con materiali naturali, magari biologici, per essere “sostenibile”. Perché lungo tutta la filiera, dai campi in cui si coltiva ciò che diventerà filato e poi tessuto fino al negozio in cui acquistiamo il capo, si trovano persone (molto spesso donne) troppo spesso pagate una miseria. Ed è per questo che è nata la Giornata mondiale del salario dignitoso, promossa dalla Clean Clothes Campaign (CCC). La data scelta è il 25 settembre, giorno in cui, nel 2013, in Bangladesh oltre cento operaie tessili rimasero ferite mentre protestavano per l’aumento dei salari. Erano passati solo pochi mesi dal crollo del Rana Plaza, il più grave disastro industriale nella storia della moda.

La maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori che tengono in piedi l’industria globale della moda vive con meno di due dollari al giorno. Turni estenuanti, stipendi da fame, l’impossibilità di coprire bisogni essenziali come nutrirsi, vestirsi, pagare un alloggio o garantire l’istruzione ai figli. In molti Paesi, i salari nel tessile non raggiungono neppure la soglia di povertà fissata dai governi o da istituzioni internazionali come Nazioni Unite e Banca Mondiale.

In molti Paesi i governi fissano i salari minimi legali più per competere nell’attrarre investimenti esteri che per garantire una vita dignitosa a chi lavora. Il risultato è che le soglie stabilite sono talmente basse da non coprire nemmeno i bisogni fondamentali delle operaie e degli operai. Eppure, ricerche indipendenti mostrano come persino questi minimi vengano spesso disattesi dalle aziende fornitrici. 

Fashion Checker: monitorare i salari nelle filiere globali dell’abbigliamento

Per rendere visibile ciò che i marchi preferiscono tenere nascosto, la Clean Clothes Campaign ha creato Fashion Checker. È una piattaforma online che permette di monitorare i salari nelle filiere globali dell’abbigliamento e quali brand di abbigliamento e calzature pagano salari dignitosi. Lo strumento offre dati aggiornati sulla trasparenza delle catene di fornitura, mettendo a confronto le retribuzioni effettive nelle singole fabbriche con i parametri locali del salario minimo. 

La Clean Clothes Campaign chiede con forza l’introduzione di un vero salario dignitoso: una retribuzione che permetta a ogni lavoratrice e lavoratore in qualsiasi punto della filiera di mantenere sé e la propria famiglia, senza dover sacrificare diritti e dignità. Come evidenzia Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, «l’industria della moda produce ingenti profitti grazie alla massima compressione dei costi di produzione, principalmente dei salari, anche nelle filiere del lusso. Questa situazione non è più accettabile. Le operaie del tessile non possono continuare a lavorare in condizioni di sfruttamento e violazione dei diritti fondamentali, ricevendo in cambio salari da fame».

Che cos’è davvero un salario dignitoso?

L’articolo 23 della Dichiarazione universale dei diritti umani dice che «ogni individuo ha diritto a una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale». In Italia è l’articolo 36 della Costituzione che sancisce che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». 

Secondo gli standard internazionali delle Nazioni Unite, «i salari e i benefici per una settimana lavorativa standard devono rispettare almeno i minimi legali o quelli di settore e, in ogni caso, essere sufficienti a soddisfare i bisogni fondamentali dellə lavoratore e delle loro famiglie, includendo una parte di reddito discrezionale». 

In concreto “salario dignitoso” significa che deve:

  • essere garantito a tutte le persone lavoratrici, e nessun salario inferiore dovrebbe essere considerato legale;
  • poter essere guadagnato entro una settimana lavorativa standard (massimo 48 ore);
  • essere una retribuzione base, esclusa da straordinari, premi o indennità;
  • coprire tutti i bisogni fondamentali del lavoratore/lavoratrice e della sua famiglia
  • includere una quota di reddito; discrezionale pari ad almeno il 10% del salario base.

Il cambio di prospettiva è radicale: il salario non è più legato alla produttività, ma alla dignità umana.

Il caso Italia: quanto dovrebbe valere un salario dignitoso

Secondo la metodologia proposta dalla Clean Clothes Campaign – che si basa sul costo della vita e prende come riferimento il reddito necessario a un’intera famiglia – in Italia, nel 2024, un salario dignitoso per chi lavora 40 ore a settimana dovrebbe essere non inferiore a 2mila euro netti al mese, circa 11,50 euro netti all’ora. Rispetto al 2022 si tratta di un aumento di almeno 95 euro, che riflette la continua erosione del potere d’acquisto.

Se adottassimo questa soglia per definire cosa significa “basso salario”, in Italia tre lavoratori su quattro si troverebbero al di sotto del livello minimo dignitoso. Cioè con un reddito netto annuo inferiore a 24mila euro.

Non c’è sostenibilità ambientale senza giustizia sociale

Come sottolineano le attiviste e gli attivisti della Clean Clothes Campaign, esiste un legame profondo tra giustizia climatica e giustizia sociale: «Il salario dignitoso è un pilastro di entrambe e rappresenta un’azione concreta di adattamento e mitigazione». Si tratta di una lotta che deve affrontare le disuguaglianze sistemiche alla radice dello sfruttamento, comprese le ingiustizie di genere e ambientali, le eredità del colonialismo e altre forme di oppressione.

Il rapporto “One-Earth Fashion” della ong svizzera Public Eye, membro della CCC, del resto, pone obiettivi concreti e cambiamenti di paradigma necessari per attuare una “giusta transizione” nel settore della moda. La “transizione giusta” è un framework, nato in ambito sindacale, per comprendere una serie di interventi sociali necessari per garantire i diritti e i mezzi di sussistenza delle persone lavoratrici nel processo verso un’economia sostenibile dal punto di vista ambientale. L’obiettivo è ripartire equamente costi e benefici della transizione ecologica, garantendo equità tra Paesi, individui e generazioni. In quest’ottica, il salario dignitoso non è il traguardo finale, ma un passaggio essenziale verso una giustizia climatica, economica e sociale globale.

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