Le grandi banche rischiano di farsi travolgere dalla crisi climatica
Pubblicato il primo report sulle strategie di adattamento alla crisi climatica delle 50 più grandi banche globali. I dati sono impietosi
Da qualche anno, le grandi banche fanno un gran parlare di net zero. Ciò significa che si impegnano a ridurre progressivamente le emissioni generate dai loro finanziamenti e investimenti e, dunque, il proprio contributo al riscaldamento globale. Ma ci sono due problemi. Il primo è che spesso lo fanno affidandosi a metriche a dir poco malleabili. Il secondo è che, nel frattempo, il clima è già cambiato.
Ne sanno qualcosa gli Stati Uniti prostrati dall’uragano Helene (175 i morti accertati il 2 ottobre), ma sono altrettanto pericolosi i fenomeni che si snodano su periodi di tempo più lunghi, come la perdita di biodiversità, l’innalzamento del livello dei mari, la desertificazione. Tutti questi rischi legati alla crisi climatica sono ben noti, ma le grandi banche non sono ancora capaci di affrontarli. È quanto emerge da uno studio della società di consulenza Climate X.
Lo studio di Climate X sulle strategie di adattamento
Il rapporto prende in esame le cinquanta più grandi banche globali, escludendo quelle cinesi e soggetti come le banche multilaterali per lo sviluppo. L’obiettivo è quello di valutare la loro maturità nel sapersi adattare alla crisi climatica. Per questo, propone 17 indicatori qualitativi suddivisi in tre aree (pensare, agire, tracciare): è un modello di leep learning chiamato LLM (large language model) a dare i voti ai singoli istituti su ciascuno di questi indicatori, arrivando ad attribuire un punteggio e stilare una classifica finale.
Il metodo, chiariscono gli autori stessi, ha dei limiti. Innanzitutto, il modello elabora i dati disponibili nei documenti che le banche rendono pubblici, prima fra tutte la relazione annuale. Perde dunque di vista quelle attività e strategie che magari sono state avviate, ma non messe nero su bianco. Gli indicatori qualitativi, inoltre, portano sempre con sé un certo margine di interpretazione. Nella lettura, infine, bisogna sempre ricordare che si parla di adattamento alla crisi climatica, non di mitigazione. Nulla vieta dunque che una banca abbia un piano di decarbonizzazione avanzatissimo e strategie di adattamento inesistenti, o viceversa.
Crisi climatica, l’impreparazione delle grandi banche
Con queste necessarie precisazioni, ci si può immergere nei dati. Che, per certi versi, risultano impietosi. Sulle 50 grandi banche analizzate, nessuna riesce a soddisfare tutti gli indicatori previsti. 43 non arrivano nemmeno a metà. Ce ne sono tre che non ne azzeccano nemmeno uno, e sono tre nomi di tutto rispetto: US Bancorp, Capital One Financial Corp e soprattutto Goldman Sachs, la seconda più grande banca d’affari del mondo (la prima è JPMorgan Chase che se la cava poco meglio, con tre indicatori su 17). Era prevedibile che le banche americane sprofondassero quasi tutte in fondo alla classifica: la Federal Reserve ha condotto i primi parziali test sulla capacità delle banche di valutare i rischi climatici, ma senza entusiasmo. La Banca Centrale Europea, al contrario, è stata molto più proattiva.
In cima alla graduatoria in realtà c’è un istituto britannico, Standard Chartered, con 12 indicatori su 17. Completano il podio le spagnole Santander e BBVA, a quota rispettivamente 11 e 10. Unicredit si piazza al quarto posto con 9 indicatori su 17; l’altra italiana è Intesa Sanpaolo, a metà classifica con 6 indicatori. In generale, le grandi banche si comportano meglio nella prima area, quella che prevede di stimare i rischi fisici legati al clima ed elaborare strategie. I punteggi calano quando si passa alla messa in atto delle strategie e, ancor più, al monitoraggio e alla comunicazione dei risultati. Ci sono cose che, ad oggi, nessuna banca fa: per esempio, adottare obiettivi o metriche sull’impatto dei propri investimenti nell’adattamento.
Le grandi banche disorientate di fronte alla più grande minaccia per l’economia globale
Insomma, le grandi banche non hanno ancora capito come comportarsi di fronte alla crisi climatica. Un fenomeno che, sostengono i ricercatori del Potsdam Institute for Climate Impact Research (PIK), provocherà danni economici pari a 38mila miliardi di dollari all’anno entro il 2050 (ma la forchetta va dai 19mila ai 59mila, a seconda di quanto sarà rapido il calo delle emissioni). E li provocherà ovunque: senza dubbio in Africa e in Asia, prive di mezzi per difendersi, ma anche nelle ricche Europa e America del nord. In un contesto simile, chiarisce il report, l’adattamento è una necessità. Non un esercizio di stile.
«La nostra ricerca dimostra che, nonostante l’aumento della consapevolezza, molte banche non riescono ancora ad attuare strategie solide di adattamento alla crisi climatica», commenta l’amministratore delegato di Climate X, Lukky Ahmed. Prosegue il chief operating officer, Kamil Kluza: «Mentre una manciata di istituti fanno passi da gigante, la larga maggioranza non mostra parametri e strategie chiare per supportare le aziende e le comunità colpite dai disastri dovuti al clima».