Greenpeace: le banche svizzere Ubs e Credit Suisse minacciano il clima
L'ong ambientalista rivela: i due istituti hanno dato 12 miliardi di dollari al fossile in tre anni. E così hanno finanziato 183 milioni di tonnellate di CO2.
Nello spazio di tre anni le banche elevetiche Credit Suisse e UBS hanno finanziato il settore fossile con contributi miliardari. Una scelta che rende i due istituti implicitamente corresponsabili delle maxi emissioni di CO2 realizzate dalle imprese del comparto. Lo rivela una ricerca diffusa in questi giorni da Greenpeace Switzerland. Un’indagine che mette ancora una volta in luce il ruolo della finanza nel sostegno al trittico petrolio-gas-carbone, il cui massiccio utilizzo è considerato da tempo come il principale fattore “umano” alla base del riscaldamento globale. «Le banche dovrebbero svolgere un ruolo attivo nella transizione verso un’economia a basse emissioni» evidenzia Katya Nikitenko, Finance specialist presso la filiale elvetica di Greenpeace. Ma la ricerca, aggiunge, «segnala ancora una volta che Credit Suisse e UBS stanno favorendo il cambiamento climatico».
Dalle due banche $12,3 miliardi al fossile
L’analisi evidenzia finanziamenti diretti a 47 compagnie «attive nel campo dei combustibili fossili estremi». Fonti particolarmente inquinanti o caratterizzate da processi di estrazione a elevato impatto ambientale, insomma. Nella lista c’è il solito carbone; oltre al gas naturale e al petrolio ricavato dalle sabbie bituminose, dalle estrazioni nell’Artico o dalle trivellazioni nelle profondità marine. I prestiti concessi da UBS al settore sono diminuiti nel corso del triennio ma ammontano in ogni caso a 4,5 miliardi di dollari. Quelli di Credit Suisse arrivano a 7,8 miliardi totali grazie anche al record annuale fatto registrare nel 2017 (3 miliardi). A conti fatti i finanziamenti delle due banche al settore ammontano a 12,3 miliardi di dollari.
Un costo per l’ambiente
Il problema è che il finanziamento ha un costo. Per l’ambiente, è ovvio. Le emissioni di CO2 realizzate dalle compagnie finanziate dalle due banche nel triennio esame ammontano complessivamente a 182,9 milioni di tonnellate. 55,9 sono ascrivibili indirettamente a UBS. 82,6 dei restanti 127 milioni attribuiti a Credit Suisse sono relativei alle attività finanziate nel 2017, l’anno nero dei prestiti al comparto. Solo in quell’anno «Credit Suisse e UBS hanno finanziato 93,9 milioni di tonnellate di CO2, pari al doppio del livello di emissioni annuali registrato in Svizzera».
Carbone, che passione
Ad influenzare il risultato di Credit Suisse, che dal 2015 al 2017 ha triplicato il suo contributo in termini di emissioni, è il sostegno della banca al carbone. Le emissioni legate all’estrazione della risorsa da parte delle aziende finanziate da Credit Suisse sono diminuite nel 2016 per poi crescere «sensibilmente» nell’ultimo anno della rilevazione. Quelle di UBS hanno seguito un trend inverso ma il contributo complessivo della banca al settore risulta alla fine addirittura superiore a quello della connazionale.
Le due banche, rileva il rapporto, hanno finanziato nel triennio attività estrattive capaci di generare 45,6 milioni di tonnellate di CO2.
Non si tratta comunque di casi isolati: negli ultimi tre anni, ha spiegato di recente un rapporto a cura della Ong tedesca Urgewald e della rete internazionale BankTrack, il settore finanziario ha investito 478 miliardi di dollari per finanziare nuovi impianti a carbone su scala globale. In cima alla graduatoria le banche giapponesi con oltre il 30% dei prestiti.
Petrolio, trading, miniere
Tra le compagnie del settore fossile che hanno beneficiato maggiormente dei finanziamenti delle due banche ci sono Peabody Energy Corp. (circa 60 milioni di tonnellate, tutte “a carico” di Credit Suisse) e Glencore Plc, colosso del trading petrolifero con un curriculum di tutto rispetto. Per quest’ultima si parla di circa 20 milioni di tonnellate, più o meno equamente distribuite, in termini di finanziamenti, tra entrambi gli istituti elvetici. Nella lista dei beneficiari di UBS e Credit Suisse anche l’anglo-australiana BHP Billiton (7,4 milioni di tonnellate), una delle maggiori corporation minerarie del mondo, l’azienda elettrica tedesca RWE (5,9 milioni), l’australiana Woodside Petroleum (4,6 milioni) e la britannica BP (3,9 milioni).
La lobby del fossile
Nell’elenco, segnalano inoltre i ricercatori, ci sono almeno undici imprese del settore impregnate in attività di lobbying sul fronte del cosiddetto “scetticismo climatico”. Nomi come Duke Energy, BP, American Electric Power e RWE, aziende che da anni si impegnano per contrastare le politiche ambientali che mirano a frenare il fenomeno del climate change. Per la maggior parte delle imprese analizzate, precisa la ricerca, non ci sono informazioni sufficienti. Non è da escludere, in altre parole, che la lista delle corporation lobbiste possa essere più ampia.
In passato, nota l’organizzazione no profit londinese InfluenceMap, molte imprese del settore fossile hanno cercato di influenzare il dibattito assumendo posizioni negazioniste sul riscaldamento globale. In seguito si sarebbero concentrate sull’obiettivo di mitigare le iniziative regolamentari paventando gli effetti potenzialmente negativi di queste ultime in termini di crescita economica e di perdita di posti di lavoro.
Il clima? Un rischio per le banche
I finanziamenti al settore, infine, non impatterebbero solo sul clima ma anche sul livello di rischio assunto dalle banche. 34 delle 47 compagnie analizzate, sostiene infatti l’analisi, sarebbero esposte ai rischi legati al cambiamento climatico a partire dagli eventi meteorologici estremi (alluvioni, tempeste, eccezionali ondate di caldo). È il cosiddetto rischio fisico, «che deriva dalla variabilità del clima, dagli eventi estremi e dai cambiamenti a lungo termine dei modelli climatici tuttora in corso». In uno scenario di incremento delle temperature medie compreso tra i 3 e i 4 gradi, rilevano già molte compagnie assicurative, coprire il rischio fisico in termini finanziari diventerebbe impossibile.
È così che il rischio ambientale si traduce in instabilità finanziaria e in potenziale default sui prestiti bancari.
Ed è per questo motivo, osserva ancora Greenpeace, che «un numero crescente di investitori e di banche considera il cambiamento climatico un rischio finanziario e non solo un problema di reputazione».