H&M accusata di sessualizzazione dei bambini nelle pubblicità

H&M ritira in Australia la campagna per le divise da scuola in seguito alle accuse di sessualizzazione dei bambini

Un negozio della catena H&M © jentakespictures/iStockPhoto

H&M ha ritirato la campagna pubblicitaria per le uniformi scolastiche, in seguito alle accuse di sessualizzazione dei bambini. La pubblicità, uscita solo in Australia, ritraeva due bambine delle elementari in divisa da scuola. Sotto di loro lo slogan: «Fai girare la testa con le divise Back to School di H&M». La campagna ha suscitato subito lo sgomento del web. L’azienda l’ha quindi ritirata, scusandosi con un comunicato stampa: «Siamo dispiaciuti per l’offesa arrecata e valuteremo il modo in cui presentare le campagne in futuro». Justine Roberts , fondatrice e direttrice di Mumsnet – forum in cui vengono forniti supporto e consigli ai genitori – ha tuttavia replicato che la pubblicità «non avrebbe mai dovuto essere creata».

«Fai girare la testa con le divise da scuola». Cosa intende H&M?

La campagna è stata definita sul web come «ignobile» e «disgustosa». Non è stata solo l’immagine delle due bambine, fotografate in una posa da adulte, ad essere criticata. A suscitare ancor più sgomento nel pubblico è stato il claim che il brand ha scelto. «Fai girare la testa con le divise Back to School». In che senso una bambina dovrebbe far girare la testa? A chi? Già in riferimento alle donne adulte il messaggio «fai girar la testa, fatti guardare (dagli uomini) per come appari e sei vestita» risulta maschilista e sessualizzante. Utilizzato per delle bambine ci si trova dinanzi a una forma ulteriormente degenerata di oggettificazione del corpo femminile.

La pubblicità di H&M, come tante altre, induce sia la società che le bambine stesse, a considerarsi come oggetti sessuali, valutabili solo in base alle loro caratteristiche fisiche e alla loro sensualità.

Si potrebbe obiettare che lo slogan avesse un’accezione più “innocua”. «Fai girare la testa, suscita l’invidia delle tue coetanee e coetanei attraverso il tuo stile». Anche in questo caso però il messaggio «suscita invidia grazie ai tuoi vestiti» entrerebbe in contraddizione con i valori di inclusività e di accettazione – di se stessi e degli altri, forti delle proprie differenze di stile – che i brand di moda dovrebbero sposare e promuovere.

Let the Girls be Girls

Le bambine dovrebbero esser lasciate libere di essere bambine. Non dovrebbero concentrarsi sul “far girare la testa” a chicchessia o esser spinte ad assumere atteggiamenti non propri della loro età. Questo è quanto sostengono coloro che si sono opposti alla campagna. «Gli utenti di Mumsnet sono da tempo preoccupati per l’insinuarsi di una cultura sessualizzata nella vita dei bambini», ha dichiarato alla BBC Justine Roberts.  «Nel 2010 abbiamo lanciato la campagna “Let the Girls be Girls”, chiedendo ai commercianti di impegnarsi a non vendere prodotti che giochino, enfatizzino o sfruttino la sessualità dei bambini. È deludente vedere che a distanza di 14 anni i venditori continuano a realizzare pubblicità inappropriate», ha continuato Roberts.

La sessualizzazione dei bambini nelle pubblicità è un problema crescente. L’anno scorso, per esempio, l’Advertising Standards Authority (ASA) – organizzazione di autoregolamentazione del settore pubblicitario nel Regno Unito – ha vietato cinque pubblicità dell’app di shopping cinese Temu. Una di queste, in particolare, è stata giudicata irresponsabile per il modo in cui ritraeva una bambina di età compresa tra gli otto e gli undici anni. In bikini e con una mano sul fianco, in un atteggiamento poco adatto alla sua età.

H&M e il marketing senza regole

Il colosso del fashion non è nuovo in quanto a utilizzo poco etico del marketing. «Non è la prima volta che il gruppo utilizza in modo sfrontato marketing e pubblicità per fidelizzare milioni di consumatori, in barba all’etica e all’evidenza» , ha dichiarato Deborah Lucchetti, attivista e coordinatrice della Campagna Abiti Puliti.

«Cito due esempi – continua –. Nel H&M 2013 aveva annunciato che entro il 2018 avrebbe pagato un salario dignitoso a 850mila lavoratori della sua filiera. Tramite le nostre ricerche sul campo avevamo scoperto non solo che ciò non era vero ma che addirittura le lavoratrici guadagnavano salari da fame, sotto la soglia di povertà. Nel 2022 l’Autorità olandese per il mercato dei consumatori ha stabilito che il termine “conscious” usato da H&M era vago e poco sostanziato, intimando al gruppo di smettere di fare affermazioni fuorvianti sui prodotti e sul sito. Due casi esemplari di greenwashing che svelano il vero obiettivo del colosso della fast fashion: aumentare vendite e profitti con ogni mezzo, incluso l’inganno o l’utilizzo di stereotipi dannosi»