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Il silenzio della stampa sulle malefatte della finanza

Questo articolo pubblicato da Die Zeit è stato tradotto da Floriana Pagano per Internazionale nel maggio 2011.   Di stampa e finanza si parlerà giovedì 1 maggio al ...

Questo articolo pubblicato da Die Zeit è stato tradotto da Floriana Pagano per Internazionale nel maggio 2011.
 
Di stampa e finanza si parlerà giovedì 1 maggio al Festival internazionale del giornalismo a Perugia con Paolo Mondani, Lisa Iotti, Nunzia Penelope, Andrea Baranes, Ugo Biggeri e Mauro Meggiolaro
 
Solo pochi giornalisti avevano capito che stava per scoppiare la crisi nel 2007. Nelle redazioni gli strumenti finanziari di Wall street erano considerati troppo noiosi. E rischiavano di far perdere lettori.
Ci sono temi che non piacciono ai lettori né ai giornalisti. Così succede che su alcuni argomenti si scrivano per anni articoli svogliati, e magari solo quando non se ne può fare a meno. Un caso che non interessava praticamente a nessuno è quello delle asset backed securities (abs, obbligazioni garantite da altre attività finanziarie, come mutui ipotecari e crediti al consumo). Negli anni novanta queste tre parole avevano un effetto simile al cloroformio: chi non era esperto dell’argomento si addormentava subito. Tutti si sono svegliati con una decina d’anni di ritardo, alla fine del 2007, in mezzo alla più grave crisi finanziaria del secolo, mentre le abs raggiungevano il culmine dei loro effetti diabolici.
Naturalmente le abs in sé non sono il demonio: si tratta di uno strumento matematico-giuridico che permette alle banche di erogare finanziamenti scaricando il rischio su altri soggetti. Questi titoli separano il debitore dal creditore, il rischio dalla responsabilità, il credito dall’affidabilità creditizia, l’agricoltore californiano che ha ricevuto un mutuo per la casa dal banchiere che gli ha prestato i soldi. Questo tipo di crediti, detti cartolarizzati, è stato per la crisi finanziaria quello che la fissione del nucleare è stata per la bomba atomica: non ne sono stati la causa diretta, ma hanno dato un contributo essenziale. Oggi sappiamo bene tutte queste cose. Ma le avremmo potuto sapere anche prima, nei quindici anni in cui le abs e altri titoli simili sono diventati il cavallo di battaglia del mondo finanziario. Perché i mezzi d’informazione, che ora ne sanno parlare con tanta precisione, non hanno lanciato prima l’allarme? Avrebbero potuto salvare il mondo e non l’hanno fatto. Era incoscienza, ignoranza o cos’altro?
Le asset backed securities comparvero per la prima volta sulla stampa tedesca in un numero dello Spiegel del 1997. All’epoca, il settimanale scrisse che David Bowie stava usando questo nuovo strumento finanziario per raccogliere capitali sui mercati. L’articolo ne parlava come di una formula magica, trascurando i dettagli matematici e giuridici. La conclusione fondamentale era che le abs erano un’innovazione. Poco dopo uscì un altro articolo che parlava di abs. Era un pezzo della Frankfurter Allgemeine Zeitung che cominciava così: “Le banche tedesche chiedono all’Ufficio federale di vigilanza sul credito condizioni più favorevoli per la nascita di un mercato dei nuovi prodotti finanziari”.
Die Zeit cominciò a seguire il tema negli anni novanta, partendo da un luogo comune tipico della stampa tedesca: l’accenno a Federico il Grande, l’inventore della lettera di credito. Poi nel 2000 scoppiò il boom dei nuovi prodotti finanziari. La Frankfurter Allgemeine Zeitung descrisse senza enfasi il modo in cui alcune banche tedesche, che in seguito sarebbero fallite, usavano le abs per proteggersi dai rischi: “Grazie a questi strumenti, banche come la Ikb potrebbero mettersi al riparo da ogni rischio. Con queste parole Hans W. Reich, portavoce del consiglio d’amministrazione della KfW, l’istituto che controlla la Ikb, ha illustrato l’idea di fondo”. Un’idea decisamente diabolica, escogitata da avidi banchieri di provincia che volevano partecipare anche loro alla grande euforia del momento.
Oggi sappiamo bene che è andata così, ma all’epoca non c’era motivo di preoccuparsi. Anche Die Zeit scriveva tranquillamente delle società create apposta dalle banche per sfruttare i nuovi strumenti.
Rendite superiori alla media
I lettori che in quegli anni non evitavano gli articoli economici dei giornali devono aver avuto l’impressione che le abs fossero un’ottima opportunità. I giornalisti si limitavano a raccontare delle rendite superiori alla media e dell’influenza benefica delle abs sulla classe media e sui bilanci delle banche. Di rischi ed effetti collaterali si parlava al massimo nel penultimo paragrafo, quello che non si legge mai se non si fa parte del mondo finanziario e non se ne conosce bene il linguaggio.
Eppure i titoli cartolarizzati – le abs o le collateralized debt obligation (cdo, un’obbligazione garantita da un portafoglio diversificato di titoli, tra cui si possono trovare le stesse abs) – non erano certo una novità. Nel 2003 furono emessi crediti cartolarizzati per un valore di tremila miliardi di dollari, cifra che sfiorò i cinquemila miliardi tre anni dopo. Raramente sono stati investiti tanti soldi in un nuovo prodotto finanziario e in un arco di tempo così ristretto. Ma nemmeno per questo le abs erano ancora una storia degna di essere raccontata. E comunque non si trattava di una di quelle notizie eclatanti che avrebbe potuto far capire ai lettori fino a che punto questi enormi e oscuri investimenti avessero a che fare con la loro vita. Chi immaginava che proprio questa comunità di lettori disinformati avrebbe dovuto pagare per salvare il sistema finanziario?
Eppure non sarebbe stato impossibile prevederlo. In Germania l’attenzione era aumentata, almeno per un po’, nel 2003, quando Warren Buffett definì i titoli derivati “armi di distruzione di massa”. Cercando le parole chiave “asset backed securities”, “derivati/Fmi”, “derivati/armi di distruzione di massa” e “derivati/Buffett” negli archivi dei giornali tedeschi tra il 2000 e il 2006, in grandi testate come Frankfurter Allgemeine Zeitung, Financial Times Deutschland, Handelsblatt, Süddeutsche Zeitung e Die Zeit si trovano nel complesso una ventina di articoli piuttosto brevi.
I pezzi dimostrano attenzione per i rischi legati a questi strumenti, ma è poca roba rispetto alla gravità della crisi che scoppierà in seguito. Tanto più che perfino per i lettori più esperti sarebbe stato difficile inquadrare correttamente la situazione: in quel periodo i giornali pubblicarono molti articoli favorevoli alle innovazioni dell’alta finanza, lodate anche dai politici. Inoltre, il grido d’allarme di Buffett ebbe scarsa eco: Tobias Moerschen, il corrispondente di Handelsblatt che aveva avvertito dei pericoli di questi strumenti in diversi articoli, aveva smesso di scrivere sull’argomento.
In quel periodo, anche sulle pagine finanziarie di Die Zeit il giornalista Thomas Hammer denunciò a chiare lettere i rischi rappresentati dai derivati. Lo stesso fece Heike Buchter, che all’epoca collaborava con Die Zeit da New York. All’inizio del 2005 il mensile economico Manager Magazin pubblicò un lungo articolo critico e dettagliato che spiegava molte cose senza perdere di vista gli effetti sull’intero sistema economico. Ma non per questo i nuovi strumenti finanziari diventarono un argomento centrale nelle riunioni di redazione.
Articoli più lunghi che cercavano di fornire un quadro generale della situazione cominciarono a uscire solo nell’estate del 2006, per esempio su Die Zeit, Der Spiegel e Wirtschaftswoche. Su Le Monde Diplomatique, che in Germania è tradotto in tedesco dal quotidiano Die Tageszeitung, lo storico Gabriel Kolko scrisse un lungo saggio che partiva dalla teoria economica e terminava con i derivati. Nell’autunno del 2006 il cerchio si chiuse: i prezzi degli immobili cominciarono a crollare e i mercati delle abs e delle cdo si paralizzarono. Era scoppiata la crisi finanziaria, uno tsunami che ha travolto l’intero pianeta come una catastrofe naturale. Ma di naturale questa catastrofe non aveva niente: per anni le banche, i politici, le agenzie di rating e gli economisti avevano contribuito a creare il più scandaloso caso di corruzione del secolo. E i mezzi d’informazione? I giornalisti non erano riusciti a mettere in allarme l’opinione pubblica.
Una svolta interessante
In fondo i giornalisti non vanno in cerca di verità, ma di notizie. Un evento fa notizia se capovolge una verità ufficiale o se, quanto meno, rappresenta una svolta interessante, come il riscaldamento globale. Il redattore delle pagine di economia che negli anni novanta aveva celebrato il libero mercato globale della finanza spiegava che si era disgregato l’ordine mondiale nato nel dopoguerra e ancora influenzato dallo shock della grande depressione e del conflitto mondiale. Il messaggio era che i tempi della prudenza erano finiti. Chi all’epoca sosteneva questa posizione era anche favorevole alle innovazioni finanziarie.
Il mondo non era uno stato e gli affari si potevano concludere anche al di fuori dei bilanci delle banche, senza rispettare quelle regole che impongono un capitale minimo agli istituti e che avrebbero contenuto il rischio entro limiti accettabili per la società. Secondo i neoliberisti, doveva essere il mercato a regolare questi aspetti: in ogni momento il prezzo è determinato dall’intelligenza collettiva di tutte le parti interessate, e questa intelligenza è superiore a quella di pochi legislatori.
Dopo la crisi, alcuni influenti giornalisti finanziari hanno ammesso di aver avuto troppa fiducia nel mercato. O, più semplicemente, hanno ammesso di aver saputo analizzare il quadro generale, ma di aver trascurato i dettagli, come la lettura dello schema di riepilogo delle abs, lungo diverse centinaia di pagine. Rainer Hank, caporedattore economico della Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, rifiuta di concedere interviste su questo argomento, perché non condivide la premessa secondo cui la crisi è stata causata dalle “malefiche abs”. Anche Gabor Steingart, giornalista che si è espresso più volte su Der Spiegel contro gli eccessi dello statalismo, non ha voluto rispondere alle nostre domande.
“Sotto molti aspetti sono favorevole alla deregolamentazione”, dice Nikolaus Piper, corrispondente da New York della Süddeutsche Zeitung e caporedattore dell’economia nel 2007. “Ma per quanto riguarda i mercati finanziari, la deregolamentazione è stata gestita male. Nella nostra redazione lavoravano esperti di finanza e di macroeconomia, ma non siamo mai riusciti a fare un lavoro di sintesi. Chi aveva ruoli come il mio avrebbe dovuto preoccuparsi di più per quello che stava succedendo”. Ma per Piper, all’epoca l’argomento principale era il disavanzo commerciale degli Stati Uniti. E le rendite straordinarie delle abs di cui si parlava tanto? Non bisognava accorgersi del pericolo? Dietro risultati così impressionanti non si nascondono le illusioni alla base delle crisi finanziarie? Su argomenti come le abs “si leggono cose anche dieci volte al giorno, ma poi a un certo punto si smette di farlo”, risponde Piper.
E i colleghi più anziani? A un certo punto hanno cambiato idea. “All’inizio eravamo scettici su questi strumenti”, dice Wolf­gang Kaden, 71 anni, esperto di economia politica, ex caporedattore di Der Spiegel e di Manager Magazin. “Poi ne abbiamo appoggiato la diffusione perché notavamo che davano un enorme impulso alla crescita. I giornalisti, inoltre, escono e parlano con le persone. E se molti hanno la stessa opinione, non possono ignorarlo”.
Robert von Heusinger, 43 anni, ex corrispondente di Die Zeit per i mercati finanziari, non pensa che quello della sua redazione sia stato un errore ideologico. “Io ho sempre auspicato una maggiore regolamentazione dei mercati”, dice il giornalista, che oggi è vicecaporedattore dell’agenzia di stampa DuMont-Redaktionsgemeinschaft. “Osservavo le pazzesche previsioni di rendita del 25 per cento, le speculazioni sui mercati valutari e le mosse degli hedge fund, e pensavo: prima o poi qui salta tutto in aria. Le abs non erano considerate molto pericolose. Non immaginavo che alla fine le banche non fossero più in grado di fornire garanzie. Non avevo ancora capito niente”.
Ma ci sono stati momenti critici che avrebbero potuto riportarci con i piedi per terra. Nel 2002 era fallita negli Stati Uniti la prima società finanziaria che ha emesso abs. Nel crollo rimase coinvolta anche una controllata del gruppo assicurativo tedesco Allianz. Poco dopo un dirigente della Federal reserve, la banca centrale statunitense, espresse forti preoccupazioni su Fannie Mae e Freddie Mac, i due istituti finanziari semipubblici che garantiscono i mutui del mercato immobiliare e che in seguito sono stati travolti dalla catastrofe.
Poi, nel 2003, Warren Buffett lanciò la sua famosa definizione dei derivati. Tobias Moerschen era appena diventato corrispondente da New York per Handelsblatt. Il giornalista non era in grado di verificare l’avvertimento di Buffett, ma lo scoop era già pronto: guru della borsa punta il dito contro la megafinanza. Moerschen pubblicò tre articoli, in gran parte critici sui derivati, con contenuti chiari ma naturalmente troppo complessi per un lettore a digiuno di alta finanza. Gli articoli non erano frutto di una ricerca approfondita.
Senza ironia Moerschen racconta che nessuno gli impediva di scrivere quelle cose: bastava che lo facesse di notte. In quei giorni dedicava la mattinata alla stesura di un paio di articoli e di pomeriggio aveva il tempo di approfondire argomenti che richiedevano un paio di giorni di indagini. “Ero libero di fare approfondimenti quando si trattava di temi scottanti in cui si parlava di personalità di spicco. Ma non potevo farlo per una storia astratta come quella dei derivati, basata sull’idea che ‘potrebbe finire male, ma magari anche no’. Fare una previsione in questo campo era impossibile per i migliori professori. Non si poteva certo pretenderla da un giornalista”. Per questo Moerschen intervistò l’economista statunitense Robert Shiller, che parlava del rischio di una nuova bolla. Le interviste richiedono poco tempo e gli accademici statunitensi sono bravi a tradurre argomenti astratti in un linguaggio accessibile a tutti. “Basta lasciarli parlare”, dice Moerschen.
Mito fondante
Sono in un open space nei pressi di Central park, a New York. Ci sono quei cubicoli grigi diventati famosi con il film Tutti gli uomini del presidente, il mito fondante del giornalismo come quarto potere, la storia di due giornalisti del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, che con le loro inchieste costrinsero alle dimissioni il presidente Richard Nixon. Dean Starkman si chiede che fine abbia fatto il giornalismo come quarto potere. Starkman, 52 anni, è redattore economico della Columbia Journalism Review, la rivista della Columbia school of journalism, l’istituzione che ogni anno attribuisce il premio Pulitzer, il sacro Graal dei giornalisti. Starkman ha esaminato quasi duemila articoli economici pubblicati su nove quotidiani statunitensi ed è arrivato a questa conclusione: “I giornalisti non hanno colto la corruzione sistematica degli operatori di Wall street e delle banche che emettevano i mutui ipotecari. Invece hanno continuato a parlare del settore finanziario usando i soliti cliché”.
Starkman attribuisce questa scelta al fatto che, incalzati da internet, i giornali statunitensi erano in crisi e quindi si sentivano troppo insicuri per contrapporsi al festante clima di apertura verso le banche dell’epoca di George W. Bush. “Su Wall street erano state scritte cose straordinarie, come Den of thieves di James B. Stewart eThe predators’ ball di Connie Bruck. Ma si trattava di saggi, non si possono considerare esempi di giornalismo investigativo. Mi chiedo se Wall street sia mai stata trattata come altri settori, come quello del tabacco per esempio. E la domanda a cui sto cercando una risposta è: perché il giornalismo economico non va a fondo nelle questioni che tratta?”.
Starkman sta scrivendo un saggio sull’argomento. La sua tesi non ha niente a che fare con l’ideologia o con i tempi necessari per le inchieste. “La nostra ottica”, dice Starkman, “è troppo ristretta. In quasi tutti gli articoli le questioni sono affrontate dal punto di vista di Wall street, prestando attenzione a fattori come le strategie delle banche, che in questo modo diventano l’argomento di cui scrivono tutti. È interessante solo quello che i tuoi colleghi considerano tale. E spesso questo coincide con ciò che sta a cuore agli addetti ai lavori”.
Le conseguenze di questo atteggiamento sono visibili ogni giorno nelle pagine economiche dei quotidiani: miniscoop comprensibili solo agli operatori del settore e vicende che si possono seguire solo leggendo per mesi una rubrica economica senza mai perdersi un articolo. Starkman lo spiega con il fatto che i giornalisti economici costituiscono una comunità piuttosto chiusa: “Alcuni esperti del settore tendono a tenere lontani gli altri, in parte perché preferiscono evitare domande sul loro modo di lavorare. Quando qualcuno solleva interrogativi viene accusato di ignoranza, faciloneria e stupidità”.
Tra le poche eccezioni, Starkman indica Mike Hudson, un collaboratore del Los Angeles Times che ha descritto per anni nelle pagine interne del quotidiano californiano il mondo oscuro degli spacciatori che distribuivano ai poveri clienti overdose di finanziamenti. C’è anche Gillian Tett, del Financial Times, uno dei primi giornali a richiamare l’attenzione sui pericoli legati ai derivati. Tett, che ha studiato etnologia, osserva la comunità della finanza come una tribù da esaminare nel suo insieme.
Nel 2004 la giornalista si è fatta coraggio e ha chiesto a un collega di illustrarle le vere connessioni tra i singoli settori del mondo bancario londinese. “Da etnologa ho imparato che per comprendere una società non bisogna osservarne solo i singoli elementi di cui parlano tutti, in questo caso i mercati azionari e le grandi fusioni, ma anche le zone grigie”. E qui Tett ha trovato i derivati, un argomento che in quel periodo i suoi colleghi ignoravano volutamente. “Purtroppo non le è stato dato molto spazio”, dice Starkman. Certo, la questione sarebbe stata controproducente per le vendite del giornale. Era una questione astratta, anonima, pessimistica, difficile da spiegare.
Con questi problemi si è scontrata anche Heike Buchter, giornalista di Die Zeit che nel 2004 ha scritto un primo articolo sui derivati raccontando, incredibilmente, tutto quello che bisognava sapere: gli istituti statunitensi Fannie Mae e Freddie Mac stavano distribuendo abs in tutto il mondo e un eventuale crollo dei prezzi degli immobili negli Stati Uniti avrebbe avuto “ripercussioni sui mercati finanziari globali”. Con il senno di poi, quell’articolo può essere definito uno scoop clamoroso, ma all’epoca fu pubblicato nelle pagine economiche di Die Zeit.
Eppure l’argomento era scottante: uno dei più grandi mercati del pianeta era descritto come una bomba a orologeria. Una storia del genere non meritava di finire in prima pagina, dopo dieci o anche venti giorni di ricerche? La giornalista racconta di aver dedicato almeno un mese alle sue indagini, ma neanche lei pensava che meritassero più attenzione. “I derivati? Provi a proporli a un caporedattore”, dice. “In tutta franchezza avevo la sensazione che noi giornalisti finanziari scrivessimo pezzi specializzati rivolti esclusivamente agli specialisti”. In effetti, bisogna ammettere che spesso questi articoli sono incomprensibili. Anche quando il linguaggio è scorrevole, nello spazio (raramente ampio) assegnato agli articoli di finanza non si fanno mai collegamenti con la situazione generale, neanche se scrivono stelle del giornalismo economico. Heike Buchter dice che in molti casi le servono mesi per studiare un argomento. Dopo l’immersione a tempo pieno nella finanza è già dura fare due o tre collegamenti. E il fatto che i suoi articoli debbano essere riletti da un avvocato non contribuisce certo alla scorrevolezza della lettura.
Fondo spese
Ma cosa dire dei giornalisti che sarebbero stati in grado di trasformare in un articolo appassionante perfino il groviglio dei derivati? O dei reporter che dispongono di un fondo spese inesauribile e di capacità narrative che possono rendere interessanti perfino le aride cifre della finanza? Questi esperti non ne sapevano niente e comunque non volevano saperne niente. Prima della crisi finanziaria, in Germania gli argomenti di economia erano considerati poco interessanti. Fino a pochi anni fa scrivere un lungo reportage significava osservare il mondo dal punto di vista dei diseredati, guardare in basso invece che in alto. E poi di solito il dramma è più facile da vendere.
Dopo l’11 settembre è accaduto più spesso che un tema complesso fosse assegnato a una squadra di reporter, ma solo quando la catastrofe era già avvenuta. Un singolo giornalista che, diciamo nel 2005, avesse voluto prendersi qualche settimana libera per concentrarsi sul mondo dei derivati, avrebbe dovuto essere già sicuro di quello che voleva raccontare. Se alla fine fosse rimasto a mani vuote o avesse chiesto altre cinque settimane da dedicare all’inchiesta, le cose si sarebbero messe male.
Il lavoro del giornalista è come quello dell’investitore: è difficile nuotare controcorrente. Non è questione di ideologia, né il problema riguarda solo il giornalismo economico. Tutti, compresi i lettori, sono soggetti a cicli informativi durante i quali alcune idee restano praticamente impubblicabili per anni, perché sono considerate troppo strane o troppo difficili da digerire. È come se non riguardassero la nostra epoca. Per capire meglio il problema, si può fare l’esempio dello yoga.
Tra il 1980 e il 2000 lo yoga è stato considerato un’attività per hippy. I suoi effetti erano senza dubbio positivi, ma non valeva la pena scriverne. Solo quando hanno cominciato a interagire due fattori – il crescente interesse per la spiritualità e l’occidentalizzazione dello yoga – sono usciti studi che ne hanno dimostrato l’efficacia. Queste ricerche hanno aiutato i giornalisti a vendere i loro articoli e a diffondere l’interesse per la disciplina. Questa tendenza continuerà ancora per un paio d’anni, ma prima o poi imploderà. A quel punto le uniche notizie che ci arriveranno sull’argomento avranno a che fare con maestri di yoga in mala fede, con i danni dello yoga o, meglio ancora, con le vittime dello yoga. È un meccanismo potente (i personaggi famosi lo sanno bene), molto più potente di quelli che gli stessi mezzi d’informazione riescono a creare. Cambiando angolazione si può dire che una redazione che non segue le tendenze, correndo troppo avanti o restando troppo indietro, non ha successo. Muoversi in direzione contraria non è impossibile, ma non è neanche facile. Non si trovano “scienziati” che forniscono prove e mancano i lettori. Così gli articoli sui derivati finiscono a pagina 28.
Heike Buchter racconta che nella redazione di Die Zeit i suoi articoli hanno ricevuto sempre una buona accoglienza. Il settimanale l’ha anche nominata corrispondente economica, offrendole la possibilità di rovistare per settimane tra i documenti invece di inseguire le celebrità di Wall street. La giornalista si è allora concentrata sugli hedge fund, sui private equity e sul commercio elettronico, ma senza perdere di vista la questione delle abs. In fondo non era ancora successo niente. Solo alla fine del 2006 ha ripreso le ricerche sull’argomento e ha pubblicato un articolo sulla cartolarizzazione dei crediti che partiva da un proprietario di casa newyorchese e arrivava fino alle banche tedesche. È stato un bel periodo per lei: l’età dell’oro del giornalismo d’inchiesta finanziario. Ma ora l’interesse dei lettori per questi temi si sta già affievolendo, sicuramente nei casi in cui non si parla di derivati.
Il problema si è spostato altrove. Dove? “È una lunga storia”, risponde Buchter. Così astratta e complessa che nessuno ha voglia di ascoltarla.