Impresa e diritti umani: è tempo di un trattato vincolante
Quando affrontiamo il tema diritti umani in relazione alle attività delle imprese private ci addentriamo in un terreno molto scivoloso, lo sappiamo bene. Qualsiasi settore ...
Quando affrontiamo il tema diritti umani in relazione alle attività delle imprese private ci addentriamo in un terreno molto scivoloso, lo sappiamo bene. Qualsiasi settore economico o tipologia di impresa ha a che fare con i diritti umani. Quasi tutti i diritti umani possono essere condizionati, e a volte sono pesantemente colpiti, dalle attività d’impresa. I diritti sociali del lavoro e della salute: i diritti sociali e quelli fondamentali della partecipazione e della democrazia, solo per citarne alcuni. Ma non occorre essere un indiano di Bhopal, o un operaio dell’Ilva di Taranto, per sentirsi direttamente coinvolti. Lo siamo tutti e tutte. Le filiere di produzione dei capi di abbigliamento che indossiamo. L’estrazione delle fonti energetiche che utilizziamo nelle nostre case. Le politiche commerciali delle aziende che espongono le merci che noi compriamo. Le pratiche finanziarie e i prodotti derivati che le banche s’inventano per speculare sui diritti delle persone, e trarne guadagni mozzafiato. Di questo stiamo parlando. La situazione è ancora più incerta quando le imprese operano nei paesi del sud del mondo, dove i sistemi legali sono più fragili, e la possibilità di ricorso alla giustizia per le vittime assai più ridotta. Certo, abbiamo il fondamentale strumento del consumo critico per indurre le aziende al rispetto dei diritti, e questo approccio ha dimostrato la sua efficacia. Ma la strategia del “voto con il portafoglio”, spiace dirlo, da sola non basta.
La questione si è ulteriormente complicata. Da almeno due decenni, il settore privato si è affermato come interlocutore protagonista nella definizione delle politiche pubbliche su scala globale. La partecipazione delle grandi imprese e delle loro associazioni di settore nei processi di governance è sempre più agevolata dai governi e dalle stesse agenzie internazionali, comprese le Nazioni Unite. Il paradigma del partenariato pubblico-privato (public and private partnership), rilanciato dall’agenda internazionale dei Sustainable Development Goals (SDGs), è destinato a spianare la strada a nuove forme di multilateralismo che altro non sono se non il cavallo di Troia per ammiccare al potere finanziario e rafforzare l’ambito di influenza delle grandi corporations sui decisori istituzionali. Tutto questo spazio garantito in assenza di un quadro di regole che stabilisca la responsabilità delle aziende transnazionali. Uno scenario dalle implicazioni non banali, nel contesto di globalizzazione economico-finanziaria molto spinta in cui viviamo; il politologo inglese Colin Crouch da anni lo rappresenta con la efficace suggestione della postdemocrazia.
Finalmente si è messo in moto un meccanismo diplomatico di reazione a quella che molti giuristi definiscono “la bolla di immunità” delle imprese. Sono serviti anni di ricerca in seno al mondo accademico, e di mobilitazione della società civile. Ci sono voluti incidenti ambientali e disastri finanziari, insomma una fitta sequenza di pessime notizie di abusi pubblicate dalla stampa internazionale per far capire che “l’autoregolamentazione da parte delle imprese non funziona, e non ha mai funzionato”, come scrive Alfred Maurice de Zayas, esperto indipendente dell’ONU per un Equo Ordine Mondiale. Da sprone, forse, ha agito anche la inequivocabile analisi economica del documento Evangeli Gaudium di Papa Francesco, e la sua lapidaria affermazione “questa economia uccide”, per sollecitare alcuni governi a spendersi con un certo coraggio geopolitico per una nuova e più solida l’iniziativa. Fatto sta che, dopo due anni di tensioni aspre e plateali opposizioni, prende avvio la prossima settimana alle Nazioni Unite di Ginevra la terza sessione dell’Open Ended Inter-Governmental Working Group (OEIGWG), il Gruppo di Lavoro intergovernativo che ha il difficile mandato di negoziare una regolamentazione vincolante per le imprese transnazionali e le altre imprese private – incluso ovviamente il comparto finanziario – collegata alle norme esistenti in materia di diritti umani. Una rivoluzione. Una assoluta innovazione, tesa a superare il regime volontario della responsabilità sociale di impresa. Un cambio di passo sostanziale, per mettere ordine e regole certe, come già accaduto con successo, ad esempio, con la Convenzione Quadro sul Controllo del Tabacco (2003) e con l’accordo Coop 21 (2016). Non è più sostenibile infatti che gli unici regimi vincolanti siano quasi esclusivamente quelli commerciali – in genere accordi capestro per gli stati – mentre le multinazionali scorrazzano libere e tutt’al più si sottopongono – quando va bene – a multe multimiliardarie.
La legittimità del percorso intergovernativo, avviato presso il Consiglio dei Diritti Umani nel 2014 grazie al protagonismo di Ecuador, Sudafrica e Bolivia, non è più in discussione. Dal 23 al 27 ottobre prossimi, il confronto della comunità internazionale verterà su quella che in gergo diplomatico si chiama substantive negotiation, l’inizio cioè del negoziato vero e proprio. L’Ecuador, che conduce il gioco, ha reso pubblico all’inizio di ottobre il documento che contiene gli elementi del trattato, su cui costruire d’ora in poi la trattativa globale. Non sarà uno scherzo. D’altro canto, la competenza acquisita dal governo dell’Ecuador dopo la più grande battaglia ambientalista di sempre, la ruvida azione legale contro la multinazionale petrolifera Texaco/Chevron per la devastazione alla foresta equatoriale del Paese, rappresenta un elemento di solidità che non molti governi possono vantare.
Siamo sono all’inizio, ma questo processo negoziale ha molti nemici. Si sono espressi contro quasi tutti i paesi dell’emisfero nord. L’Italia, al pari di tutti gli stati membri della UE, si è opposto persino alla creazione del Gruppo Intergovernativo. Quindi bisogna cominciare dai fondamentali e spingere controcorrente, a favore di questa iniziativa, a tutti i livelli. I parlamentari europei, come del resto i parlamentari di tutto il mondo, stanno raccogliendo adesioni prima della imminente sessione a un appello in appoggio al trattato vincolante su diritti umani e imprese. Per quanto riguarda la società civile, invitiamo tutti e tutte a firmare la dichiarazione del movimento globale per il trattato. Lo ha detto bene Francuccio Gesualdi qualche giorno fa su Avvenire: «Abbiamo globalizzato il mercato: ora è il momento dei diritti».