Inceneritori, l’Italia nel mirino della Corte Ue
Dalla Ue, nuovi limiti più rigidi sul riciclo rifiuti. E il nostro Paese potrebbe essere condannato dai giudici europei perché sbilanciata verso inceneritori e discariche
In Europa, entro il 2025, almeno il 55% dei rifiuti urbani domestici e commerciali dovrebbe essere riciclato. L’obiettivo salirà al 60% nel 2030 e al 65% nel 2035. Il 65% dei materiali di imballaggio dovrà essere riciclato entro il 2025 e il 70% entro il 2030. Vengono fissati inoltre degli obiettivi distinti per materiali di imballaggio specifici, come carta e cartone, plastica, vetro, metallo e legno. In linea con gli obiettivi Onu di sviluppo sostenibile, gli Stati membri dovrebbero, inoltre, ridurre gli sprechi alimentari del 30% entro il 2025. Cinque anni dopo il taglio dovrebbe arrivare al 50%.
Un’Europa di vizi e virtù
Sono i nuovi limiti fissati questa volta per legge. A stabilirli è la risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 18 aprile 2018, che modifica la Direttiva rifiuti del 2008. La proposta di legge limita, inoltre, la quota di rifiuti urbani da smaltire in discarica a un massimo del 10% entro il 2035. Nel 2014, Austria, Belgio, Danimarca, Germania, Olanda e Svezia non hanno inviato praticamente alcun rifiuto in discarica. Cipro, Croazia, Grecia, Lettonia e Malta hanno al contrario interrato più di tre quarti dei loro rifiuti urbani.
L’Italia nel 2016 ha prodotto oltre 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, ne ha trattati 26,9 milioni. Ha inviato in discarica 7,43 milioni di tonnellate e ad incenerimento 5,86 milioni. Sono 497 i chili di rifiuti pro capite prodotti dall’Italia nel 2016. Di questi, il 27,64% appunto è andato in discariche, il 50,55% riciclato o compostato e il 21,81% incenerito.
E intanto il Tar del Lazio…
Il testo ora tornerà al Consiglio europeo per un’approvazione formale, prima della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Intanto, in Italia i fautori di un’economia a zero rifiuti segnano un punto a loro favore, attraverso i tribunali. Il 24 aprile, il Tribunale Amministrativo del Lazio, ha accolto il ricorso contro il cosiddetto decreto “Sblocca Italia”. A presentarlo erano stati il Movimento Legge Rifiuti Zero per l’Economia Circolare, Verdi Ambiente e Società, Associazione “Mamme per Salute e l’Ambiente Onlus” e Comitato “Donne 29 Agosto”.
Il decreto, secondo un parere dei medici per l’ambiente di ISDE Italia comporterebbe un “surplus” di incenerimento di quasi due milioni di tonnellate/anno (1.818.000 t/a), con impatto ambientale e sanitario non valutati.
I lati oscuri dello “Sblocca Italia”
Oggetto del contendere, il Piano nazionale che prevede di potenziare 40 impianti di trattamento rifiuti esistenti e di costruire 8 nuovi inceneritori nel Meridione. “Il TAR del Lazio ha rinviato per competenza sul merito alla Corte di Giustizia, il governo italiano e il Ministero dell’Ambiente, sia sul mancato rispetto della corretta gerarchia di trattamento dei rifiuti, che sulla mancata esecuzione della Valutazione Ambientale Strategica, sempre prevista in caso di programmi o piani statali di gestione rifiuti che hanno impatto sull’ambiente e la salute”. A spiegarlo a Valori è Massimo Piras, coordinatore nazionale del Movimento Legge Rifiuti Zero.
Con l’articolo 35 del decreto 133/2014, il cosiddetto “Sblocca Italia” e con i successivi decreti attuativi, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Ambiente avevano stabilito che i 40 impianti di incenerimento, (su quarantadue esistenti e operativi) presenti nel territorio italiano destinati ai rifiuti urbani e speciali, fossero “infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale”. Per questo motivo sia l’attività di incenerimento sia i suoi effetti sull’ambiente potevano esulare da ogni controllo delle regioni. Arrivando anche alla “riclassificazione” degli impianti trasformandoli con un cambio di sigla da “D10” a “R1” (da Smaltimento a Recupero di energia), senza che tali incrementi e modifiche siano passati al vaglio di una procedura di Valutazione Ambientale Strategica.
E ora la Corte di Giustizia Ue
“Stiamo verificando tutti i passaggi giuridici per accelerare la fissazione dell’udienza a Lussemburgo (sede della Corte di Giustizia europea) e per creare un pressing rispetto ai gruppi presenti nel Parlamento europeo”, conclude Massimo Piras. “Laddove sia a noi favorevole la sentenza della Corte di giustizia farà ‘giurisprudenza’ in ambito europeo sul ruolo obsoleto e del tutto residuale dell’incenerimento rispetto al paradigma dell’Economia Circolare”.
Urgono impianti per la frazione umida
La direttiva comunitaria mette al primo posto la riduzione, al secondo il riuso, al terzo il riciclo e solo al quarto l’incenerimento. Per chiudere in modo virtuoso la filiera della gestione dei rifiuti sono necessari altri tipi di impianti. A partire da quelli di raccolta della frazione umida, ad esempio. Che dovrebbero essere incentivati e definiti anch’essi di “interesse strategico nazionale”. Soprattutto nelle regioni in piena emergenza rifiuti. Lazio, Liguria e Sicilia in primis.
Dati di riciclo, la trasparenza latita
Inoltre, pesa sempre l’assenza di trasparenza, sui dati di raccolta ed effettivo invio a riciclo, su cosa e quanto va effettivamente a incenerimento o a “recupero energetico”. La maggior parte dei gestori degli impianti degli incenerimento in Italia, in questo momento, sono multiutility quotate in borsa e con fatturato superiore ai 500mila euro, non soggette, ad esempio, alla nuova normativa sulla trasparenza. E che ricevono pure incentivi. Lo rivela anche l’ultimo rapporto del Gse. Secondo il Gestore dei servizi elettrici, la produzione di energia attraverso i rifiuti, gestita dalle multiutility riceve contributi statali, in quanto viene considerata “energia rinnovabile”.
Sistema dei controlli carente
Come denunciato dall’ultima relazione “I consorzi e il mercato del riciclo”, licenziata a fine gennaio 2018 dalla “Commissione di Inchiesta parlamentare sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti”, presieduta da Chiara Braga, manca un organismo di vigilanza indipendente, addirittura abrogato con il D.M. 3 maggio 2017 e “il sistema dei controlli appare gravemente carente”.
Mancanza di trasparenza e carenza di controlli che hanno portato anche all’accordo tra il Comando Generale dell’Arma dei carabinieri, e l’Istituto Superiore per la Protezione Ambientale, sulla prevenzione, vigilanza, monitoraggio e controlli ambientali sull’intero territorio nazionale.