Moda e sfruttamento: cosa rivela l’inchiesta della Procura di Milano

La Procura di Milano indaga su governance e filiere dei grandi marchi. L’inchiesta mostra un sistema che si regge su subappalti opachi e sfruttamento

© Wirestock/iStockPhoto

La Procura di Milano ha chiesto a tredici marchi della moda – da Prada a Gucci, da Versace a Ferragamo, fino ad Adidas, Missoni e Dolce & Gabbana – di consegnare documenti chiave sulla loro governance e sulla rete di fornitori. Un passo che non equivale a un’accusa diretta, ma che fotografa una realtà ormai difficilmente ignorabile: dietro borse da migliaia di euro e sfilate scintillanti, la filiera del Made in Italy continua a poggiare su manodopera sottopagata, turni estenuanti e subappalti opachi.

Secondo gli inquirenti, sono almeno 200 i lavoratori trovati in condizioni di sfruttamento nelle aziende finite sotto sequestro. Un numero che non racconta solo una serie di abusi, ma un modello industriale. Perché il punto non è cosa “sanno” davvero i brand: è che lo sfruttamento è da anni un ingranaggio essenziale del sistema moda, dal fast fashion al lusso. Un meccanismo che continua a funzionare finché conviene a tutti tranne che a chi, la moda, la produce.

Una filiera spezzettata che scarica responsabilità e diritti

Il cuore dell’inchiesta è il meccanismo che regge gran parte della produzione nella moda italiana (e non solo): una filiera spezzettata, esternalizzata, dove i grandi marchi affidano la realizzazione di borse, cinture, capi e accessori a una catena di appaltatori e sub-appaltatori. Una struttura che permette velocità, flessibilità e margini più alti, ma che rende anche più facile scaricare responsabilità lungo i gradini più bassi della produzione.

Secondo gli investigatori, proprio in questi laboratori – spesso piccoli opifici nascosti in aree industriali della Lombardia e dell’Emilia – sarebbero emerse violazioni gravi delle norme sul lavoro e sulla sicurezza: turni massacranti, paghe illegali, lavoratori irregolari, dormitori improvvisati accanto ai macchinari. Un quadro che non riguarda un singolo fornitore ma un’intera filiera, essenziale per garantire ai marchi tempi stretti e costi minimi.

È la dinamica della committenza “indiretta”: i grandi brand non producono quasi mai in proprio. Commissionano. Delegano. Contano su una rete di fornitori che a loro volta subappaltano, talvolta più volte. Ufficialmente, i marchi affermano di esercitare controlli e audit. Ma, come sottolinea Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, «questa inchiesta rende ormai impossibile continuare a nascondersi dietro le carte delle certificazioni: lo sfruttamento nel cuore del Made in Italy è un fenomeno strutturale. Non bastano più certificazioni patinate o audit di facciata a coprire ciò che ormai è sotto gli occhi di tutti».

Dal lusso al fast fashion: perché lo sfruttamento nella moda è sistemico

La moda – che sia quella del lusso o la fast fashion – si regge sulla pressione continua a produrre più in fretta e più a basso costo per generare margini di profitto sempre più alti. Una pressione che si scarica, inevitabilmente, sull’anello più debole della filiera: la manodopera. Il ricorso sistematico ad appalti e subappalti è la conseguenza diretta di questa logica. Ogni passaggio aggiunge un livello di intermediazione, frammenta la responsabilità e abbassa ulteriormente i prezzi riconosciuti a chi materialmente cuce, assembla, incolla, rifinisce. Le imprese committenti negoziano volumi e scadenze, mentre i laboratori, per non perdere il cliente, comprimono tutto il resto: salari, sicurezza, tempi di riposo. Il risultato è un mercato che premia chi riesce a “fare di più con meno”, non chi garantisce diritti e qualità del lavoro.

A ciò si aggiungono altri fattori strutturali: l’asimmetria di potere contrattuale tra grandi marchi globali e micro-fornitori, la scarsa sindacalizzazione dei lavoratori – spesso migranti e privi di protezioni –, l’assenza di trasparenza lungo la catena produttiva, e un’impostazione della competitività basata sulla riduzione sistematica del costo del lavoro. Tutti elementi che alimentano un ecosistema dove lo sfruttamento non è un incidente, ma una leva economica.

«Serve una riforma del settore»: la richiesta di Abiti Puliti

«Il Made in Italy non può essere il palcoscenico dove si celebrano profitti stellari costruiti sulla negazione della dignità di chi cuce, assembla, rifinisce», dichiara prosegue Deborah Lucchetti. «E non può diventare nemmeno uno strumento di marketing per chi non è disposto a pagare il giusto, danneggiando le tante Pmi che lavorano correttamente e subiscono una concorrenza sleale intollerabile». È per dire no al caporalato Made in Italy e allo scudo penale per i grandi marchi previsto dal disegno di legge Pmi che la Campagna Abiti Puliti ha lanciato una petizione pubblica rivolta al Parlamento.

«Le richieste della Procura – che chiede ai brand i modelli 231, gli audit e le procedure di controllo – dimostrano che finalmente ci si muove nella direzione giusta», sottolineano dalla Campagna. «Ciò che occorre la Made in Italy è una riforma seria del settore che protegga chi lavora e non chi sfrutta». E per farlo bisogna lavorare sulla piena trasparenza delle filiere e sulla responsabilità diretta delle aziende sugli appalti e subappalti. Attraverso controlli indipendenti, pubblici e realmente efficaci. Rafforzando le tutele per chi denuncia lo sfruttamento e abbandonando l’idea di uno scudo penale che indebolisca il principio di responsabilità d’impresa. «Il Made in Italy deve tornare a essere sinonimo di qualità e diritti, non di ipocrisie e catene di valore costruite sulle spalle degli ultimi».

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