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India, il gigante fragile va al voto. Con lo spettro dell’economia

Il 23 maggio inizia lo spoglio elettorale. In primo piano i temi economici: tra crescita e svalutazione, povertà e disuguaglianza record

Matteo Cavallito
Lavorare in strada. L'ampia maggioranza dei lavoratori indiani opera nel settore dell'economia informale
Matteo Cavallito
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L’India? È un Paese pieno di contrasti, che diamine. E il corsivo è d’obbligo, ci mancherebbe, visto che le frasi fatte lo impongono da sempre. Si dice così, no? E vale per tutte le aree decisamente problematiche: un verso buono per ogni nazione pericolante tra grandi prospettive e grandi privazioni. Miseria morale e miseria materiale, solita accoppiata. Della prima parla soprattutto la politica, sempre più contaminata da fascinazioni autoritarie, in linea per altro che un trend visibile in altri grandi Paesi emergenti – dal Brasile alla Turchia – per tacer di quella nazione del G8 che ben conosciamo. Della seconda, invece, è maestra la storia, che della povertà endemica locale è da sempre relatrice.

Un’agenda fitta di problemi

Il presente, invece, è l’imminente scrutinio elettorale di giovedì 23 maggio. Il premier uscente Narendra Modi e lo sfidante Rahul Gandhi. Tanti dubbi, aria di governo di coalizione con i piccoli schieramenti pronti a sostenere uno dei due colossi di sempre: il fronte nazionalista del BJP o il Partito del Congresso.

La certezza in ogni caso è che ai vincitori toccherà affrontare un’agenda fitta di problemi. Tra emergenze nuove – gli effetti della guerra commerciale tra USA e Cina – e questioni irrisolte (la mancata modernizzazione di un sistema produttivo largamente informale). La solita, maledettissima, economia indiana. Quella sì variegata e instabile. Quella sì, al di là ogni luogo comune, “piena di contrasti”. Anche troppi.

Borsa in ascesa

Se Modi dovesse perdere le elezioni, la borsa scenderebbe. Ma non troppo a lungo, perché l’India «è ancora destinata a crescere a un ritmo del 7% all’anno». Parola di Christopher Wood, amministratore delegato della società di intermediazione CLSA e noto esperto di mercati asiatici.

Quella sui titoli finanziari indiani, in altre parole, sembrerebbe a prescindere una scommessa vincente. Nulla di strano, considerando l’andamento del Sensex, l’indice di riferimento della piazza locale, nel corso degli anni. Ma l’espansione del comparto è solo una delle tante sfaccettature che caratterizzano l’economia nazionale di uno dei Paesi più complicati del mondo.

Rupia in crisi

Il primo problema, per dire, si chiama svalutazione. Negli ultimi anni la valuta locale si è fortemente deprezzata rispetto al dollaro USA. Per acquistare un biglietto verde, oggi, servono circa 70 rupie contro le 74 raggiunte a ottobre. Un miglioramento esiguo che nulla toglie al trend di lungo periodo: dalla seconda metà del 2011 la moneta nazionale ha perso il 55% del suo valore nel cambio con la valuta USA.

Le cause? Il solito mix ben noto ai mercati emergenti dalla fine del QE americano, lascia intendere implicitamente la società di ricerca India Ratings. Ovvero: politica monetaria restrittiva statunitense (appunto…), rafforzamento del dollaro (idem come sopra), aumento del prezzo delle materie prime e almeno un paio di fattori interni come l’espansione del deficit e la crescita dell’inflazione. Un brutto affare, quest’ultimo, che impatta soprattutto sui più poveri.

Inflazione dai due volti

Nel 2018, l’inflazione era calata in modo significativo ma a partire dall’inizio del nuovo anno i prezzi hanno ripreso a salire. Ad aprile, il tasso annuale ha sfiorato il 3%, il valore più alto degli ultimi 6 mesi. Nello stesso periodo i prezzi medi dei generi alimentari di prima necessità hanno fatto registrare il tasso di crescita più alto da quasi tre anni (+7,4%). Una buona notizia per i contadini possidenti che possono tornare a respirare dopo una fase molto critica. Ma non certo per i salariati e i consumatori più poveri. Come dire: due facce della stessa medaglia.

La guerra del cash la perdono i poveri

Lo schema si era già manifestato al tempo del famigerato Notebandi, o demonetizzazione che dir si voglia. Nel novembre del 2016, Modi annuncia l’imminente messa fuori corso dei tagli da 500 e 1.000 rupie (circa 7 e 14 dollari al cambio dell’epoca). Ai cittadini indiani vengono date sei settimane di tempo per cambiare le banconote, un’impresa che si rivela molto più complicata del previsto. L’obiettivo della norma è il contrasto alla corruzione, ma l’iniziativa si rivela un mezzo disastro.

«La demonetizzazione ha avuto un impatto molto negativo sulle attività economiche e finanziarie dei poveri» sostiene una ricerca della Ong IFMR LEAD. L’indagine rivela in particolare un calo dei redditi e una crescente difficoltà nel trovare un lavoro. La stretta sulla liquidità produce inoltre ritardi nei pagamenti degli stipendi anche perché il ricorso ai servizi digitali resta trascurabile. Oltre il 95% degli intervistati, spiega ancora l’analisi, basa le proprie transazioni esclusivamente sul cash.

Nulla di sorprendente in un Paese dove la liquidità circolante vale il 10,5% del Pil, quasi quattro volte rispetto al dato registrato in altre economie emergenti come Brasile, Messico e Sudafrica.

Ad oggi più della metà della popolazione non ha un conto in banca. Trecento milioni di indiani non posseggono nemmeno una carta d’identità.

Dal 22 al 25 agosto prossimo, emblematicamente, l’India ospiterà nella città di Hyderabad il XIX congresso mondiale sul reddito minimo universale del Basic Income Earth Network.

India sempre più diseguale

Nel 2017, una ricerca degli economisti francesi Lucas Chancel e Thomas Piketty ha evidenziato il problema della crescente disuguaglianza in India.

Nel 2014, ultimo anno per il quale esistono dati definitivi, l’1% più ricco della popolazione indiana ha incassato il 22% del reddito totale registrato nel Paese, il valore più alto da quasi un secolo.

Il fenomeno si è manifestato soprattutto negli ultimi 30-40 anni. All’inizio degli anni ’80, la quota di reddito nazionale in mano al top 1% si aggirava attorno al 6%. Come si spiega una simile tendenza?

Quanti sono i poveri?

«Si dice che le politiche di liberalizzazione introdotte ufficialmente nel 1991, ma avviate in realtà già negli anni ‘80, abbiano facilitato lo sviluppo economico, il che è in parte vero» sostiene Elisabetta Basile, ordinario di Economia dello Sviluppo alla Sapienza di Roma.

«Ma il vero motore della crescita è il meccanismo di sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente. Oggi oltre il 90% degli indiani lavora nell’economia informale, senza tutela, senza previdenza, senza copertura sanitaria e senza diritti».

E non è tutto. «Il sistema sociale indiano – aggiunge – è caratterizzato da un disuguaglianza strutturale di genere, di casta e di religione. Ed è proprio questa disuguaglianza a rendere sempre difficile la lotta alla povertà».

E poi c’è il problema delle statistiche, numeri che non convincono. «Quanti sono i poveri in India? Non lo sappiamo» spiega ancora la docente. «Ufficialmente si parla del 20% della popolazione, ma il dato fornito dal governo non è credibile. Negli ultimi 50 anni i criteri per la definizione della linea della povertà, necessaria per contare i poveri, sono stati modificati molte volte. All’inizio degli anni 2000, la Banca Mondiale forniva una stima del numero dei poveri superiore a quella comunicata dal governo». A proposito di contrasti, tanto per cambiare.