«Democrazia indiana in declino. C’è una brutta aria di autoritarismo»

Lo storico Michelguglielmo Torri: «In India tira una brutta aria, un po’ come in Italia. Modi? Le sue politiche economiche sono state disastrose»

Matteo Cavallito
Il primo ministro indiano Narendra Modi atterra a Buenos aires in occasione del G20 2018. © G20/Flickr
Matteo Cavallito
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Alla vigilia dello spoglio elettorale l’India vive essenzialmente di incertezza. Il largo successo ottenuto nel 2014 dal leader del partito del Popolo (Bharatiya Janata Party, BJP) Narendra Modi ha aperto la strada a una nuova fase. Cinque anni di governo nazionalista che hanno modificato il Paese nel suo assetto politico e sociale. Ne è convinto Michelguglielmo Torri, Professore di Storia moderna e contemporanea dell’Asia presso l’Università degli Studi di Torino.

«Oggi assistiamo a un chiaro declino della democrazia indiana» spiega in questa intervista a Valori. E il riferimento corre a un mix pericoloso di fattori. Dal nazionalismo alla violenza, dalla repressione del dissenso attraverso la Sedition Law – che l’opposizione vorrebbe depotenziare – ai problemi irrisolti dell’economia. Questioni aperte, sulle spalle del premier uscente e del suo sfidante Rahul Gandhi, candidato del Partito del Congresso.

Professor Torri, secondo la maggior parte dei sondaggi nessuno dei due schieramenti potrebbe ottenere la maggioranza dei seggi

È difficile fare previsioni. Sono in molti a pensare che il BJP otterrà un risultato peggiore rispetto alle passate elezioni. Il Partito del Congresso è in ripresa ma non abbastanza. Suppongo che per avere una maggioranza dovrà formarsi una qualche coalizione.

C’è chi giudica Rahul Gandhi poco carismatico. Concorda?

No. La stampa indiana, soprattutto quella anglofona, è sbilanciata da molti anni a favore di Modi. Lo rappresenta come un semidio e dipinge il suo avversario come un incapace. Eppure, nonostante il risultato negativo del suo partito, Rahul Gandhi non si era comportato male alle passate elezioni. Oggi ha maggiore esperienza.

È giusto considerare queste elezioni come un referendum di fatto su Narendra Modi?

In un certo senso sì. Modi simboleggia molti aspetti preoccupanti, a partire da una politica sempre più identitaria che privilegia gli indù e rappresenta cristiani e musulmani come indiani di seconda classe. Le leggi contro la macellazione delle vacche possono apparire quasi come elementi di folclore. Ma dietro alla loro applicazione c’è stato uno stillicidio di violenze, atti squadristici e linciaggi che hanno fatto vittime soprattutto tra la popolazione islamica. Se a questo aggiungiamo le crescenti intimidazioni contro la stampa, possiamo certamente parlare di un declino complessivo della democrazia.

Viene in mentre lo scontro sulla Sedition law. C’è un pericolo autoritario per l’India?

In India tira una brutta aria, non troppo diversa da quella che si respira in Italia, per capirci, e in altri Paesi che pur avendo una struttura democratica pendono sempre di più verso l’autoritarismo. La Sedition Law è uno dei retaggi legislativi dell’epoca coloniale. Norme dimenticate per decenni e che oggi vengono rispolverate per colpire e intimidire gli oppositori.

Anche l’India, come l’Italia, è affascinata dalla figura dell’uomo forte?

Sì ma con una differenza sostanziale. Salvini, per capirci, ha caratteristiche simili a quelle di Modi. Ma quando lancia le sue invettive contro l’Europa, facendo salire lo spread, suscita preoccupazione tra gli operatori economici finanziari. Il premier indiano invece ha un rapporto privilegiato con gli industriali e il grande capitale. Non a caso si presenta come un modernizzatore orientato al progresso economico, anche se le sue politiche sono state disastrose e i risultati negativi sono occultati dalla stampa e dalle statistiche ufficiali.

Si riferisce alla demonetizzazione?

Certo. Un’iniziativa che ha tolto dalla circolazione l’85% del contante con effetti catastrofici nel settore, enorme, dell’economia informale. Ma penso anche al nuovo regime fiscale che ha provocato sconquassi all’export indiano.

Perché l’India non riesce a risolvere il problema della povertà?

Nel 1991 l’India ha introdotto una serie di riforme di tipo neoliberista. Da allora molte politiche sociali sono venute meno e lo Stato ha ridotto gli investimenti. Il problema è che i privati non sono disposti a mettere i propri capitali nei settori più rischiosi, a partire dall’agricoltura che impiega oggi circa la metà della popolazione. Se ne parla poco ma la crisi agraria si sta aggravando e produce crescenti movimenti di protesta.

Inoltre la disuguaglianza di reddito è ai massimi storici…

C’è una classe media minoritaria che ha guadagnato dal liberismo e una maggioranza povera che vota e che, probabilmente, è sempre meno entusiasta di Modi. Ecco, diciamo che quando si ha fame la retorica religiosa e nazionalista fa meno presa.

L’India è spesso accostata alla Cina per dimensioni e potenzialità di sviluppo. Ma i due modelli di crescita sono davvero paragonabili?

No. L’economia cinese è quattro volte più grande di quella indiana e continuerà ad esserlo per i prossimi venti o trent’anni.

L’India però cresce più rapidamente

Sinceramente credo che i dati ufficiali sul Pil indiano siano truccati. Lo sostengono molti economisti, per altro.

Come descriverebbe oggi i rapporti tra i due Paesi?

All’inizio Modi ha tenuto un atteggiamento aggressivo nei confronti dei cinesi, ma con l’arrivo di Trump e l’avvio della sua guerra commerciale le cose sono cambiate. I rapporti tra Washington e Delhi sono diventati più difficili e l’India, minacciata dai dazi ha cercato un avvicinamento con la Cina. Non diversamente da quanto fatto dal Giappone. Ci sono perplessità sulla Belt and Road Initiative ma sono stati presi provvedimenti per riequilibrare la bilancia commerciale con Pechino e disinnescare la tensione alla frontiera.

In compenso cresce la tensione con il Pakistan. Come vede il futuro delle relazioni?

I rapporti tra India e Pakistan sono di tipo ondulatorio. Il Kashmir è un problema irrisolto. E poi in entrambi i Paesi ci sono gruppi influenti che non vogliono arrivare a una soluzione perché pensano che un nemico faccia sempre comodo per giustificare le spese militari e un certo tipo di politica. In sintesi, non sono ottimista.