Iraq, quando la guerra «bombarda» anche il sistema finanziario
Guerre e sanzioni hanno rallentato lo sviluppo del sistema finanziario in Iraq. Pesano anche elementi culturali. Ma qualcosa sta cambiando
Molto, ma molto dopo l’enormità del danno in termini di vite umane perse e straziate e di sofferenze e distruzioni incalcolabili, i conflitti bellici producono impatti, specie se considerati in una prospettiva di medio e lungo periodo, che restano troppo spesso sotto traccia nella narrazione dominante. Per non dire che non se ne parla proprio. Eppure, incidono moltissimo nella vita quotidiana di chi, uscendo dalle guerre, prova con enorme fatica a ripartire. E chissà che prima o poi non li includano nei loro mirabolanti calcoli tutti coloro che straparlano anche in Italia di settore della difesa come volano dell’economia e dello sviluppo. Affermazioni tra l’altro tutte da dimostrare anche in Paesi che per loro fortuna non vivono la guerra sulla propria pelle ma si limitano, si fa per dire, a vendere armi e munizioni a chi purtroppo la fa per davvero.
Un caso da manuale: il sistema finanziario in Iraq
Un caso purtroppo da manuale è quello dell’Iraq. Che anche per questo sa bene chi ringraziare, di nuovo si fa per dire, e cioè chi parlava di esportare la democrazia a suon di bombe costruendo prove false per giustificare una tale assurdità e restando poi incredibilmente impunito per averlo fatto. Ma questa è un’altra storia.
Paese devastato dalle guerre e dalle sanzioni, l’Iraq ha un’economia anch’essa devastata, rimasta indietro e sostanzialmente dipendente dalle esportazioni di petrolio. Il sistema finanziario è ugualmente arretrato, ma soprattutto è scollegato, disconnesso da quello internazionale. In particolare per quanto riguarda un aspetto: i pagamenti digitali.
In Iraq, infatti, il denaro contante la fa ancora e di gran lunga da padrone. Quando invece mezzo mondo è ormai abituato a pagare contactless con lo smartphone, ad acquistare quasi tutto online e in tanti si trastullano con le criptovalute. Dati della Banca mondiale dicono che circa i due terzi degli adulti nel mondo utilizzano i pagamenti digitali e il loro numero cresce significativamente anche nei Paesi in via di sviluppo in Asia e in Africa. Ma, evidentemente, non in tutti.
Quasi un’epoca diversa, ma sullo stesso pianeta
L’Iraq sembra quasi vivere in un’epoca diversa, sebbene il pianeta quello sia. Meno di un quinto della popolazione ha un conto bancario e pochi fra questi dispongono di una carta elettronica di pagamento. Non sono disponibili fornitori di servizi di pagamento globali (PSP, Payment Service Provider) come PayPal. Non perché vi siano restrizioni – l’Iraq non è più nella lista dell’Unione europea dei Paesi considerati ad alto rischio di riciclaggio e finanziamento del terrorismo – ma perché, probabilmente, queste società considerano rischioso o non ancora interessante presidiare il mercato iracheno.
Decisivo è anche l’elemento culturale: gli iracheni non amano la moneta elettronica, o perché non la conoscono, o perché non si fidano. Hanno fiducia invece nei contanti e continuano a usarli, come si nota anche dalle pile di banconote che spesso si vedono circolare nei bazar. Anche quando acquistano su piattaforme di commercio elettronico, la stragrande maggioranza dei consumatori preferisce pagare in contanti alla consegna. Il che ovviamente, per chi gestisce attività di quel genere, è un inconveniente non da poco. Non stimola a investire nei pagamenti elettronici, complica la gestione, frena lo sviluppo del business, ostacola il collegamento coi mercati internazionali. Se i sistemi di pagamento elettronico diventassero almeno un po’ più diffusi, invece, potrebbero creare maggiori spazi di opportunità per chi vuole mettersi in proprio. Ad esempio le donne o i lavoratori disoccupati.
Poi c’è la corruzione: il rapporto di Transparency International pone l’Iraq al 154mo posto (l’Italia è 42esima). Il contante ovviamente agevola la corruzione e chi ci lucra sopra vede come il fumo negli occhi la possibilità che i pagamenti elettronici si affermino. Forze che cercano di mantenere lo status quo, insomma, anche rallentando le necessarie riforme di una normativa legale e finanziaria arretrata.
Ma qualcosa si muove: il lento cambiamento culturale
Nonostante tutto, nel sistema finanziario dell’Iraq qualcosa si sta muovendo. Il valore delle transazioni digitali ha raggiunto i 18 trilioni di dinari iracheni (quasi 14 miliardi di dollari) e il ritmo di crescita sta aumentando, con oltre 1,5 miliardi di dollari di transazioni nel solo agosto di quest’anno. È il risultato di una serie di innovazioni regolamentari introdotte dal governo in accordo con la banca centrale dell’Iraq che, già a marzo, aveva emesso delle linee guida per la costituzione di banche digitali nel Paese, con una settantina di realtà che hanno poi presentato domanda in tal senso. Obiettivo della spinta governativa è quello di porre le basi per lo sviluppo di un autentico ecosistema dei servizi finanziari digitali.
Oltre a questa, l’altra sfida centrale è il cambiamento culturale. Si tratta di accompagnare gli iracheni da una parte ad abbandonare la dipendenza dal contante, dall’altra ad acquisire progressivamente familiarità e quindi a fidarsi dei pagamenti digitali. Se ci pensiamo, anche in Italia e in altri Paesi industrialmente avanzati c’è voluto il suo tempo perché ciò accadesse. E non c’era l’impatto devastante di guerre e sanzioni con cui fare i conti. Che fa tutta la differenza del mondo.