L’Italia si schiera contro la normativa europea sulla biodiversità
Italia e Ungheria hanno votato contro la Nature Restoration Law. Col rischio che la prossima Commissione europea accantoni il progetto
Lunedì 25 marzo avrebbe dovuto essere un giorno importante, il giorno della Nature Restoration Law. E invece la normativa europea per la tutela della biodiversità è stata rinviata. Un accordo, fra i principali pilastri del Green Deal, su cui l’Unione europea lavora da due anni, che ogni giorno diventa più urgente e che finalmente avrebbe dovuto essere approvato. Ma al Consiglio europeo otto Paesi si sono opposti. A guidare i ribelli, immancabilmente, l’Ungheria di Viktor Orban, che pur ne aveva supportato il passaggio in Parlamento. Poi la Svezia, i Paesi Bassi. E ovviamente l’Italia di Giorgia Meloni. Austria, Belgio, Finlandia e Polonia invece si sono astenuti.
Che cos’è la Nature Restoration Law
La Nature Restoration Law servirà, o dovrebbe servire, a contenere la perdita di biodiversità, invertire i danni subiti dalla fauna selvatica in acqua e sulla terra ferma, curare ecosistemi feriti e sfiancati dall’attività umana. Viene in mente il concetto ebraico di Tiqqun ‘olam: riparare il mondo. Ma oltre a essere un atto di giustizia riparativa è anche uno strumento di difesa dagli effetti presenti e futuri dei cambiamenti climatici. È un modo per proteggere noi stessi e la Terra in cui viviamo da siccità e inondazioni. Significa rendere il Pianeta nuovamente forte e resiliente, in grado di affrontare eventi climatici estremi sempre più frequenti.
A fine febbraio era stata approvata dal Parlamento europeo, con 329 voti favorevoli e 275 contrari. Mancava solo il passaggio al Consiglio, ovvero al vaglio degli Stati membri. E ora il rinvio mette a rischio l’intera normativa. Per farsi un’idea di quanto sia urgente, basti pensare che ad oggi l’81% degli ecosistemi del territorio europeo versa in uno stato di conservazione considerato “povero” o “scadente”. La legge punta a ripristinare il 20% delle aree marine e terrestri dell’Unione entro il 2030. E il 60% entro il 2040. Inoltre, tutti gli ecosistemi degradati entro il 2050. Nei prossimi anni gli Stati membri dovranno quindi impegnarsi a riportare percentuali crescenti di passaggi da condizioni “degradate” a “buone”. E ciò per foreste, praterie, paludi, fiumi, laghi, coralli.
Gli agricoltori al centro della legge sulla biodiversità
Per raggiungere questi obiettivi vanno necessariamente messe in discussione le logiche dell’agricoltura intensiva. In realtà , però, la versione votata in Parlamento era già molto indebolita rispetto alla prima bozza. La rivolta dei trattori degli ultimi mesi aveva spinto a mitigarne i passaggi più ambiziosi.
Proprio gli agricoltori sono fra i protagonisti di questa legge. Gli sforzi richiesti servono anche a proteggere il loro lavoro dell’impoverimento dei terreni e dagli effetti dei cambiamenti climatici. Eppure è soffiando sul fuoco delle loro proteste che le destre cercano di procrastinare il passaggio della legge sulla biodiversità fino a giugno. Sapendo che con un nuovo esecutivo europeo, la norma potrebbe essere accantonata definitivamente o ulteriormente depotenziata.
La giustificazione avanzata dal governo italiano
La vice-ministra italiana all’Ambiente e della Sicurezza energetica, Vannia Gava, ha usato proprio questa leva per giustificare l’opposizione all’accordo, definito non soddisfacente. «Occorre una maggiore riflessione su come evitare impatti negativi su un settore, come quello agricolo, che è cruciale per l’economia e la sicurezza alimentare dell’Italia e dell’Ue», ha affermato.
Proprio per rispondere a questo tipo di ragionamenti, il ministro belga della Transizione energetica, Alain Maron, ha affermato che «gli agricoltori stanno lottando per un reddito equo. Questa è la loro battaglia. Non stanno combattendo contro la natura». E infatti per placare le preoccupazioni degli agricoltori, l’Ue ha da una parte annunciato ritardi sulle regole per i terreni inutilizzati. Ma dall’altra ha promesso un sostegno alla catena di approvvigionamento.
La questione, infatti, è combattere lo sfruttamento da parte dei supermercati che cercano di mantenere bassi i costi per i consumatori. Sono proprio i costi della grande distribuzione, basata su filiere lunghissime, prodotti iper-lavorati e mille passaggi intermedi fra produttore e consumatore, il vero problema degli agricoltori. Per mantenere prezzi accessibili sugli scaffali, l’unico modo è pagare il meno possibile la materia prima.
Una partita giocata sul filo del rasoio
C’è solo un 1% di voti di distanza, un soffio, fra passare e non passare, fra invertire la rotta e avvicinarsi sempre più a pericolosi punti di non ritorno. Correndo il rischio di compromettere definitivamente la salute di questi ecosistemi. Un soffio che rischia di far arrivare l’Europa a mani vuote alla prossima Cop sulla biodiversità, come ha fatto notare il commissario europeo per l’Ambiente, Virginijus Sinkevičius. E questo è gravissimo.
A parole l’Europa ha fatto da apripista nella Cop 15 di Montreal nel 2022, e ora ha il dovere concreto e simbolico di mantenere il suo ruolo di capofila. Sulla sua credibilità si basa un processo che dovrà, si spera, trainare tutti gli altri Paesi nei prossimi anni e decenni. Soprattutto quelli con meno mezzi economici e una storia di sfruttamento coloniale alle spalle, che molto difficilmente riusciranno altrimenti nell’impresa.
Come ha fatto notare il ministro dell’Ambiente spagnolo Teresa Ribera, l’Europa «non può permettersi di abbandonare la sua agenda verde». E questo vale sia in termini di responsabilità verso il proprio territorio e i propri cittadini, sia in termini di credibilità di fronte al resto del mondo.