Land grabbing e colonialismo alimentare, le nuove armi dei potenti
Il sesto rapporto "I padroni della terra" di Focsiv analizza il fenomeno del land grabbing nel mondo e le sue conseguenze sulle comunità locali
“I padroni della terra”. Questo il titolo del rapporto annuale che la ong Focsiv realizza per analizzare il fenomeno del land grabbing, ovvero l’accaparramento della terra, e le relative conseguenze su diritti umani, ambiente e migrazioni. Giunto alla sesta edizione e curato da Andrea Stocchiero e Marta Morgante, il documento è una fotografia di un fenomeno di cui a pagare le spese sono, soprattutto, popoli indigeni e contadini.
Quello che emerge dalla lettura delle 200 pagine del rapporto è un fenomeno in forte crescita. E un continuo inasprirsi del conflitto fra gli interessi economici e politici di governi e aziende, da una parte, e il «diritto alla terra di chi vi abita e la custodisce», dall’altra. Negli ultimi vent’anni sono stati acquisiti 114,8 milioni di ettari di suolo, di cui 26,1 milioni solo nel 2022, anno analizzato nel rapporto. Due sono le ragioni principali di questa tendenza: la guerra in Ucraina e la transizione ecologica.
Il cibo: un’arma impropria
Fin dall’inizio della guerra seguita all’invasione dell’Ucraina, la Russia ha usato il cibo come strumento per creare fratture e alleanze. Impedendo o permettendo a carichi di grano di raggiungere Paesi mediorientali o africani. E bombardando o incendiando campi e strumenti di lavoro in Ucraina.
Si parla in questo caso di food grabbing, o colonialismo alimentare. Con zone del mondo che non sono più in grado di vivere di agricoltura o allevamento di sussistenza (magari proprio per aver ceduto i terreni a monoculture come la palma da olio) e che dipendono dall’importazione di grano e mais. Per esempio dall’Ucraina, come abbiamo visto nell’ultimo anno e mezzo.
Il cibo come arma
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Se la transizione ecologica si trasforma in una corsa al controllo delle materie prime
Accanto al ruolo geopolitico del cibo c’è la transizione ecologica che si sta trasformando in una corsa al controllo e all’estrazione di materie prime.
«La sicurezza economica nazionale – si legge nel rapporto di Focsiv – è diventata un nuovo mantra. I governi lanciano nuovi piani industriali sostenuti da sussidi pubblici per creare, rafforzare, attrarre capacità produttive e tecnologiche, ed assicurarsi il controllo di risorse strategiche. Gli Stati Uniti hanno adottato l’Inflation Reduction Act, a cui pochi mesi più tardi ha risposto la Commissione europea con il Critical Raw Materials Act, senza considerare gli impatti nei Paesi del Sud del mondo e sui diritti delle comunità più vulnerabili. Piuttosto, i governi degli Stati più ricchi ed emergenti continuano ad esternalizzare gli interessi nazionali cercando nuovi accordi con i governi dei Paesi del Sud che hanno risorse critiche, riproducendo schemi neocoloniali».
Nel gioco di domanda e offerta fra Paesi occidentali e governi di Paesi detentori di queste risorse, sono quasi sempre escluse le comunità indigene e contadine che abitano i territori da cui i metalli vengono estratti.
Leggendo il rapporto si incontrano diversi casi studio. Come quello della Bolivia che propone sulla carta una politica della difesa dell’ambiente e dei diritti degli indigeni. Mentre nella pratica cerca di sfruttare al meglio le opportunità estrattive delle miniere di litio senza coinvolgere e ascoltare davvero le comunità locali. È il caso del Salar de Uyuni dove si è finito per affidare i lavori di estrazione a compagnie straniere. Con la certezza che gli unici a non guadagnarci e anzi a perdere il controllo del territorio saranno le comunità indigene.
In Perù è addirittura il 14% del territorio nazionale a essere stato concesso a compagnie straniere per l’estrazione mineraria. Mentre le comunità indigene e contadine sono state delocalizzate e frammentate.
La Cina il maggior investitore, in Africa i maggiori investimenti
Grafici e mappe basati sui dati estratti da Land Matrix (progetto indipendente di monitoraggio sull’uso della terra) mostrano che la maggior parte del land grabbing a danno delle comunità locali avviene in Africa. E in particolare nella Repubblica Democratica del Congo per le monocolture agricole e l’estrazione mineraria. Seguono l’America Latina, l’Europa orientale (come singolo Paese, la Federazione Russa è al primo posto) e l’Asia. Sul totale, il 40% degli investimenti è volto allo sfruttamento di foreste, il 33% all’estrazione mineraria e il 26% all’agricoltura.
Fra i Paesi investitori al primo posto c’è la Svizzera con 13,3 milioni di ettari. Seguono Canada, Stati Uniti, Cina, Giappone, Gran Bretagna e Singapore. Il Brasile risulta nei primi dieci posti sia come Paese investitore che come oggetto di investimenti. Nel Cerrado – secondo il WWF la savana più ricca al mondo in termini di biodiversità – più di 10 milioni di ettari sono stati disboscati per le monocolture e l’allevamento. Il Paese con più interessi distribuiti nel mondo è invece la Cina, che ha stipulato accordi con ben 53 nazioni per la concessione di terre. Al secondo posto si sono gli Stati Uniti con investimenti in 47 Paesi.
Oltre al land grabbing: water e green grabbing
Abbiamo parlato di land e food grabbing, ma esistono altri tipi di accaparramento di risorse. In particolare il water grabbing. La privatizzazione dell’acqua permette un sovrasfruttamento delle falde da parte di poche grandi aziende. Ciò mentre la popolazione e l’ambiente subiscono le conseguenze della siccità crescente dovuta ai cambiamenti climatici. È il caso ad esempio delle piantagioni di avocado in Cile su cui viene dirottata gran parte delle risorse idriche del Paese.
Un altro fenomeno è quello del cosiddetto green grabbing, per esempio attraverso la finanziarizzazione della natura per i carbon credit, i sistemi di compensazione delle emissioni climalteranti. O ancora, con la scusa della conservazione di foreste e aree verdi, le comunità indigene sono di fatto escluse dai parchi protetti (e militarizzati). L’accesso viene eventualmente riservato a turisti paganti.
Le campagne di Focsiv contro il land grabbing e per il diritto alla terra
Il rapporto dà conto delle lotte per la difesa del «diritto alla terra, per la sua custodia, per una equa distribuzione dei suoi benefici» in tutto il mondo. Racconta le proteste degli agricoltori in Nigeria e in Ghana contro la privatizzazione dei terreni. Le proposte di riforma agraria del movimento indigeno ecuadoriano. Il viaggio della Carovana dell’Africa occidentale per il diritto alla terra, all’acqua e all’agroecologia, dal Senegal alla Sierra Leone. Una lotta «politica e dal basso» a cui si affiancano «alcuni processi a livello internazionale ed europeo che possono rappresentare motivo di speranza per un mondo migliore».
A fronte di un insufficiente impegno degli Stati, Focsiv partecipa alla Campagna Impresa2030 – Diamoci una regolata! «impegnata nel sostenere un negoziato che riconosca i diritti delle comunità a decidere della propria vita, difendendosi dai grandi interessi privati». La Campagna 070 si rivolge invece all’Italia e chiede che lo 0,70% del reddito nazionale lordo sia destinato all’aiuto pubblico allo sviluppo.
Molto si muove insomma per rivendicare i diritti di chi abita terre ricche di risorse, sia a livello di proteste che di consapevolezza. Tanto da essere diventato anche il tema dell’ultimo film di Martin Scorsese, Killers of The Flower Moon. Narrazioni, ricerche e documenti fanno luce su un fenomeno che esiste da quando esiste il colonialismo, ma che negli ultimi decenni si è mascherato e intensificato. Con danni immensi per le comunità e per la tutela dell’ambiente.