Le priorità contro l'evasione fiscale
Comprereste un chilo di carta igienica a oltre 4.000 dollari? E un litro di succo di mela per 2.052$? E penne a sfera per 8.500$, secchi di plastica ...
Comprereste un chilo di carta igienica a oltre 4.000 dollari? E un litro di succo di mela per 2.052$? E penne a sfera per 8.500$, secchi di plastica per 972$, pinzette a 4.896$ l’una? Eppure sono esempi di transazioni effettivamente realizzate da alcune multinazionali, e non da responsabili acquisti improvvisamente impazziti. Parliamo invece di una delle più diffuse ed efficaci strategie per non pagare le tasse.
Benvenuti nel mondo del transfer pricing, una pratica perfettamente lecita ma che può essere sfruttata per eludere il fisco e “ottimizzare” il proprio carico fiscale. Il prezzo di trasferimento indica quello a cui le imprese multinazionali acquistano e vendono prodotti o servizi tra loro diverse filiali.
Il trucco è semplice. Un’impresa vende succhi di frutta in Italia, e a fine anno realizza un milione di euro di profitti, sui quali sarebbe tenuta a pagare le tasse. L’impresa crea però una succursale di comodo in un paradiso fiscale, e questa succursale – unicamente sulla carta – vende mille litri di succo alla casa madre in Italia a 1.000 euro al litro. Risultato: la filiale in Italia ha un milione di euro in più di costi a bilancio, che va ad azzerare i profitti e quindi le tasse da pagare. Il corrispondente milione di profitti è ora nella succursale nel paradiso fiscale, dove le tasse sono basse o nulle.
Se si vuole fare di più, basta essere un po’ più scaltri e vendersi il succo a 2.000 euro al litro e non a 1.000 per fare si che la filiale in Italia risulti in perdita, potendo quindi accedere ad aiuti, sussidi e contributi messi a disposizione dallo Stato per le imprese in difficoltà. Sussidi che provengono dalle nostre tasse, da quelle dei dipendenti che hanno la trattenuta in busta paga o da quelle di artigiani e piccole imprese che a differenza delle multinazionali non possono ricorrere a simili trucchi contabili e fiscali. Le stesse piccole imprese che subiscono la concorrenza sleale dei gruppi di maggiori dimensioni, che sfruttando tali scappatoie possono abbassare i costi.
Quelli riportati sono esempi semplificati ed estremi. Solitamente gli eccessi nei prezzi di trasferimento variano dal 5% al 25% rispetto a quelli di mercato, rendendo molto difficile scoprire tali pratiche. Ancora più complesso scoprirle quando sono relative a beni intangibili come brevetti o marchi. D’altra parte eserciti di consulenti sono a disposizione delle imprese e delle persone più facoltose, così come della criminalità organizzata, per spostare, riciclare e nascondere alle autorità giganteschi capitali.
Non è possibile fare nulla, quindi? Al contrario, gli strumenti per contrastare tali fenomeni ci sarebbero. Uno è l’obbligo di rendicontazione Paese per Paese dei dati contabili delle imprese multinazionali, che oggi devono presentare unicamente dei dati aggregati nei loro bilanci. In questo modo non è possibile sapere fatturato, costi del lavoro, profitti e tasse pagate in ogni giurisdizione in cui operano, permettendo o per lo meno facilitando abusi come quelli descritti in precedenza. Un’altra misura è la richiesta di un registro pubblico delle imprese, e in particolare dei loro reali proprietari, per contrastare l’anonimato e le scatole cinesi societarie.
Proprio su quest’ultimo punto, nei mesi scorsi il Parlamento europeo ha votato a larghissima maggioranza per chiedere l’introduzione di un registro pubblico che permetta di mostrare quali siano i reali proprietari di ogni impresa. La parola passa adesso a Commissione e Consiglio, e sarà fondamentale nei prossimi mesi la spinta della presidenza di turno dell’UE, ovvero dell’Italia.
In parallelo, accanto alla rendicontazione Paese per Paese dei bilanci e al registro pubblico, sui quali serve un accordo europeo e poi internazionale, molto di potrebbe fare anche su scala nazionale. Per esempio inserendo negli appalti pubblici delle condizioni o almeno un punteggio preferenziale per le imprese che dimostrano un comportamento fiscale corretto, ovvero che non ricorrono a filiali e succursali anonime e/o nei paradisi fiscali e che pubblicano i propri bilanci suddivisi per ogni giurisdizione in cui operano e in maniera trasparente. Già oggi diversi bandi prevedono punteggi addizionali per le imprese che hanno una certificazione sulla qualità dei propri processi produttivi o una maggiore attenzione all’ambiente. Perché non farlo anche in ambito fiscale? E’ possibile che lo Stato lavori con imprese che da un lato ottengono commesse pubbliche e dall’altro evadono le tasse?
Obbligare all’utilizzo di POS e bancomat per gli acquisti sopra i 30 euro ma non prevedere sanzioni per chi non lo fa appare per lo meno inefficace, per usare un eufemismo. Non è con questi provvedimenti che si può pensare di combattere la grande evasione. Una reale trasparenza in ambito finanziario, fiscale e societario è la chiave per contrastare non solo l’evasione fiscale, ma anche mafie, corruzione, riciclaggio, economia sommersa. L’Europa, anche in ragione della crisi, sembra finalmente intenzionata a muoversi. Se davvero c’è la volontà politica di cambiare rotta, l’Italia non può permettersi di perdere una tale occasione storica durante il proprio semestre di presidenza dell’UE.