Loss and damage, approvato alla Cop28 il fondo per i Paesi vulnerabili
Nel primo giorno della Cop28 di Dubai è stato approvato il fondo per il loss and damage. Restano tuttavia tanti punti interrogativi
La ventottesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, la Cop28, è stata aperta ufficialmente la mattina di giovedì 30 novembre a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. E nel primo giorno (fatto mai accaduto nelle edizioni precedenti) si è subito stabilito un risultato. È stato infatti approvato il fondo per consentire alle nazioni più vulnerabili della Terra di fronteggiare le perdite e i danni (loss and damage) patiti a causa degli impatti dei cambiamenti climatici. Di fronte ai quali risultano fortemente esposte, benché ne siano responsabili solo in minima parte.
Una buona notizia. E un buon punto di partenza, anche per velocizzare i tempi e far sì che nei restanti giorni della Cop28 ci si possa concentrare sull’altro tema fondamentale: la mitigazione. Ovvero ciò che serve per centrare l’obiettivo più ambizioso dell’Accordo di Parigi: limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 1,5 gradi centigradi, entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali. Come sempre accade in caso di decisioni come quella assunta oggi a Dubai, tuttavia, è necessaria un’analisi approfondita per comprendere come stiano davvero le cose.
L’annuncio di Sultan al-Jaber, presidente della Cop28
«Si tratta di un segnale positivo per il nostro lavoro e per il mondo intero. Abbiamo scritto una pagina di storia oggi. La rapidità con la quale l’abbiamo fatto è inedita e fenomenale», ha commentato il presidente della Cop28, Sultan al-Jaber, al centro di polemiche da mesi per il suo ruolo di amministratore delegato della Adnoc, la compagnia petrolifera di Stato degli Emirati Arabi Uniti.
Il lavoro rappresenta la conclusione di un braccio di ferro, tra Paesi del Nord e del Sud del mondo, durato un anno. Il principio della creazione di un fondo era stato infatti stabilito al termine della Cop27 di Sharm el-Sheikh, nel 2022. Ed era stato frutto di un fragile compromesso. Che ora, però, è stato puntellato. Non senza tuttavia che permangano numerosi punti interrogativi.
La Banca Mondiale scelta malgrado il “no” dei Paesi in via di sviluppo
Il primo riguarda la decisione di far gestire il fondo alla Banca Mondiale. Ciò per almeno quattro anni, in via provvisoria. Si tratta di una decisione sofferta, e che a lungo è stata osteggiata con forza dai Paesi in via di sviluppo più vulnerabili di fonte agli impatti del riscaldamento globale. Ciò per una serie di ragioni, non ultima il fatto che per le nazioni meno ricche del mondo Banca Mondiale, di fatto, è sinonimo di “condizionalità”.
Non si conoscono ancora, infatti, le modalità tecniche attraverso le quali si potrà attingere al fondo. Né se i finanziamenti saranno erogati sotto forma di prestiti o a fondo perduto. In entrambi i casi, però, il timore è che possano essere poste, appunto, delle condizioni: in passato, infatti, a fronte dei prestiti concessi spesso sono stati imposti vasti piani di privatizzazioni, correzioni di bilancio draconiane, o ancora quote di esportazione di materie prime per essere certi di poter ripagare i debiti contratti.
La governance: un compromesso che potrebbe porre in minoranza i Paesi ricchi
Inoltre, il fatto di affidare il fondo alla Banca Mondiale significa passare attraverso un istituto che è di fatto, indiscutibilmente, dominato dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. Quanta voce in capitolo avranno, insomma, i Paesi vulnerabili ai quali i capitali dovrebbero arrivare?
«Il fatto che la Banca Mondiale sia la sede provvisoria del fondo è preoccupante per i Paesi in via di sviluppo. Deve essere attentamente esaminato per garantire che le comunità vulnerabili possano avere un accesso facile e diretto ai fondi e che l’intera operazione sia gestita con molta più trasparenza di quanto non faccia normalmente la Banca Mondiale. Queste erano le condizioni concordate dai Paesi e se non verranno rispettate, sarà necessario un accordo separato», ha spiegato al quotidiano The Guardian Mariana Paoli, della ong Christian Aid.
Frutto evidente di un compromesso, è la presenza di un “board” del fondo per gli indennizzi legati al loss and damage la cui composizione è stata già indicata dall’accordo. Sarà composto da 26 membri così distribuiti: 12 da Paesi sviluppati, 3 da Stati della macroregione Asia-Pacifico, 3 da America Latina e Caraibi, 3 dall’Africa, 2 dai piccoli stati insulari, 2 dai Paesi più poveri della Terra e 1 dai Paesi in via di sviluppo non inclusi nei gruppi regionali. Il che significa, almeno teoricamente, lasciare in minoranza gli Stati ricchi (ammesso che tutti gli altri si schierino dalla stessa parte). Occorrerà verificare, in questo senso, quali equilibri si creeranno, concretamente, all’interno del board.
Chi alimenterà il fondo: le prime promesse sbagliano unità di misura
Al di là della governance, poi, sarà fondamentale capire quanti fondi arriveranno. I Paesi sviluppati, Stati Uniti in testa, hanno rifiutato categoricamente che i contributi possano essere obbligatori. E hanno vinto, su questo punto: i fondi per il loss and damage saranno versati su base volontaria. I governi delle nazioni ricche reclamano inoltre un allargamento della base dei donatori a quelle emergenti come Arabia Saudita o Cina.
Ma quanto valgono le prime promesse avanzate? Per ora si tratta di gocce in mezzo al mare della crisi climatica. Nonostante gli appelli alla generosità giunti da più parti, gli Stati Uniti hanno promesso un apporto pari a 17,5 milioni di dollari. Gli Emirati Arabi Uniti 100 milioni, il Regno Unito 76. Altri 225 arriveranno dall’Unione europea (100 di questi promessi dalla Germania). Complessivamente, per ora, si è arrivati ad un totale di impegni per qualche centinaio di milioni. Nulla, a confronto di quanto necessario: il costo dei danni irreversibili causati da inondazioni, tempeste, ondate di caldo e di siccità o dalla risalita del livello dei mari potrebbe raggiungere 580 miliardi di dollari all’anno di qui al 2030 per i Paesi esposti.
«Ci aspettiamo promesse in miliardi, non in milioni», ha dichiarato Rachel Cleetus, della Union of Concerned Scientists americana. Mentre Madeleine Diouf Sarr, che presiede il gruppo dei Paesi meno avanzati (composto dalle 46 nazioni più povere della Terra) ha parlato di decisione «di enorme rilevanza per la giustizia climatica», ma ha avvertito che «un fondo vuoto non aiuterà i nostri cittadini». Allo stesso modo, l’alleanza dei piccoli Stati insulari Aosis ha spiegato che «il lavoro è lungi dall’essere terminato. Non saremo tranquilli finché il fondo non sarà finanziato in modo corretto e comincerà concretamente ad alleggerire la zavorra che pesa sulle comunità vulnerabili».
Molte decisioni sul fondo per il loss and damage rinviate al 2024
A quanto pare, i primi fondi saranno inoltre utilizzati per finanziare dei progetti-pilota. Ciò al fine di testare il funzionamento del fondo, prima di fare un bilancio, che dovrebbe arrivare tra 12-18 mesi.
D’altra parte, ai punti 6 e 7 della decisione, si spiega che gli accordi operativi sul fondo «dovranno essere approvati dalla Conferenza delle Parti nella sua ventinovesima sessione (novembre 2024)»
Chi potrà accedere al fondo?
Infine, a lungo ci si è chiesti quali siano le nazioni che potranno accedere ai capitali stanziati nel fondo. Alla Cop27 si parlò di Paesi “particolarmente vulnerabili”. E la dicitura appare riproposta nel documento approvato a Dubai.
Ma cosa si intende con “particolarmente vulnerabili”? Appare evidente che le piccole nazioni insulari, che rischiano di essere in parte o totalmente sommerse a causa della risalita del livello dei mari provocata dalla fusione dei ghiacci polari non potranno che essere incluse. E nei mesi scorsi si è immaginato che ad esse si aggiungeranno le nazioni “meno avanzate”, ovvero quelle che secondo le Nazioni Unite presentano i livelli più bassi di Pil e/o di Human development index. Così, verrebbero inclusi Paesi come Afghanistan, Bangladesh, Haiti o ancora Madagascar. Ma sarebbe escluso il Pakistan, che però è stato devastato da inondazioni gigantesche nel 2022.
I punti da chiarire, insomma, restano ancora molti. «L’anno scorso, all’inizio della Cop27 in Egitto, il fondo per le perdite e i danni non era nemmeno all’ordine del giorno della riunione. È quindi una prova della determinazione dei negoziatori dei Paesi in via di sviluppo il fatto che ora sia già stato concordato e istituito», ha aggiunto Mariana Paoli. Sottolienando però che c’è ancora molto lavoro da fare.