«Niente più militari»: il futuro del Sudan è una partita ancora aperta
La tenacia dei manifestanti ha bloccato i piani del regime: sostituire l'odiato al Bashir con un altro generale. Una speranza per una stagione realmente nuova
Una rivolta araba in ritardo di qualche anno? O semplicemente uno degli anacronistici dittatori africani che viene rovesciato, come è accaduto a Blaise Compaorè in Burkina Faso, o al vicino presidente algerino Bouteflika? Che sia l’una o l’altra cosa sta di fatto che Omar al Bashir, salito al potere con un colpo di stato militare nel 1989, è stato rimosso dagli stessi militari che lo hanno sostenuto in questi trent’anni e che, soprattutto nell’ultimo decennio, lo hanno usato come fantoccio per legittimare un regime corrotto e incapace di affrontare una crisi economica molto seria.
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Un circolo vizioso innescato dalla secessione del Sud Sudan
Proprio la crisi economica è stata la scintilla che ha dato fuoco ad una polveriera che si preparava da tempo ad esplodere, da quando, nel 2011, il Sud Sudan ha fatto secessione privando Khartoum della gran parte dei pozzi di petrolio ubicati, appunto al Sud. Senza più il greggio che aveva consentito al paese di entrare nel grande club petrolifero mondiale, il Sudan è precipitato in una crisi economica che lo ha infine costretto, nel gennaio scorso, ad aumentare il prezzo del pane e della benzina.
La protesta è divampata immediatamente trasformandosi in breve da economica a politica. L’obiettivo delle decine di migliaia di persone che ogni giorno riempivano le strade di Khartoum e di Oumdurman, la città gemella sull’altra sponda del Nilo, è immediatamente diventato l’odiato Omar al Bashir, simbolo di un regime repressivo e incapace di affrontare la crisi.
I due piani della crisi
A quel punto la questione si è giocata su due piani. Quello palese di un regime in crisi contestato da una base costituita soprattutto da giovani, da professionisti, da studenti e commercianti e quello più occulto del conflitto all’interno del regime.
Omar al Bashir infatti era divenuto un personaggio imbarazzante e ingombrante che rappresentava il principale ostacolo alla rimozione di sanzioni e embargo americano e dell’Unione Europea. L’ex dittatore sudanese è infatti inseguito da un mandato di cattura emesso dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e genocidio in Darfur, la macro regione occidentale del Sudan dove è in corso un conflitto tra il potere centrale e i movimenti guerriglieri delle popolazioni nere locali.
La tenacia dei dimostranti ha bloccato il make up del regime
Per le oligarchie militari del Sudan la rivolta poteva trasformarsi nel pretesto ideale per silurarlo e prendere due piccioni con una fava: rifare la facciata al regime e offrire al popolo la dimostrazione di una svolta politica che in realtà era solo un cambio cosmetico ai vertici del regime.
La tenacia e la determinazione dei dimostranti ha però mandato all’aria questi piani. Quando il regime ha sostituito Omar al Bashir con Mohamed Hamed Auf, un altro generale, le manifestazioni di piazza non sono cessate, anzi sono diventate più partecipate e più agguerrite dato che il presidente nominato – già primo vicepresidente di Bashir e suo ministro della difesa – era chiaramente una emissione del vecchio potere e la sua nomina un cambio di facciata per non cambiare la sostanza.
Mohamed Hamed Auf è stato costretto a dimettersi il giorno dopo la nomina. È stato nominato un’altro militare, sulla carta più gradito al popolo ma le manifestazioni ancora una volta non sono cessate. L’Associazione degli Artigiani sudanesi, che ha guidato e promosso le proteste, ha fatto sapere che le manifestazioni non cesseranno fino a che non ci sarà un governo di civili. La partita è ancora aperta.