Olivicoltura da tradizionale a intensiva. A perderci non è solo il gusto dell’olio
Il passaggio all’olivicoltura intensiva ha effetti sulla biodiversità, sullo spreco di risorse idriche e sui prezzi di mercato
La superficie olivicola mondiale è cresciuta negli ultimi trent’anni anni di oltre il 30%. Un aumento dovuto allo sviluppo e diffusione della dieta mediterranea, di cui l’olio d’oliva è la base. Una sostanza dall’alto valore nutrizionale. Il patrimonio olivicolo italiano è stimato in 150 milioni di piante distribuite su una superficie di 1.165.458 ettari. L’olivicoltura italiana è presente in 18 regioni su 20. Diffusa in particolare in Puglia, Calabria, Sicilia, Basilicata, Campania e Sardegna, dove si realizza l’88% della produzione nazionale. Pari mediamente a 300-400.000 tonnellate di olio di oliva ogni anno.
E se fino ad oggi l’olivicoltura tradizionale ha contraddistinto un paesaggio rurale, ha contribuito alla tutela ambientale e ha dato un contributo positivo contro il dissesto idrogeologico e la desertificazione. Ora qualcosa sta cambiando con il passaggio dall’olivicoltura tradizionale a quella intensiva. E i riflessi di questo cambiamento non sono solo produttivi, paesaggistici o di mercato. Ma vanno anche a mutare le proprietà organolettiche dell’olio e a determinare lo stravolgimento del suo patrimonio genetico.
Dall’oliveto tradizionale all’olivicoltura specializzata
L’olivicoltura tradizionale originaria, ormai molto limitata, era basata su impianti (spesso secolari) con sesti di impianto irregolari. Non aveva cultivar (varietà) ben definite. Di solito si trattava di varietà locali che con il tempo si erano ingentilite, tipicizzando vocazioni territoriali e legando la coltivazione alla storia evolutiva di intere zone. Era un’olivicoltura incentrata su aziende di piccole dimensioni con conduzione spesso a carattere familiare. Le piante come detto era spesso sparse e con una mistura di varietà (molto spesso autoctone).
Questa olivicoltura era una straordinaria fonte di materiale genetico ed era caratterizzata da miscugli di varietà che davano un olio dal gusto puro, molto particolare e indefinito. Generalmente questi impianti avevano meno di 200 alberi per ettaro (a seconda del sesto d’impianto), un’elevata produttività per singola pianta, ma una bassa produttività per ettaro (piante grandi e bassa densità di impianto). Era richiesta una bassa meccanizzazione, sia per le operazioni colturali che per la raccolta.
La monocoltura italiana come patrimonio e tradizione locale
A questa olivicoltura tradizionale originaria, negli anni se ne affianca un’altra specializzata, con sesti di impianto più stretti e quindi maggior quantità di piante per ettaro. Si passa dalle 250 alle 450 per ettaro. Questi impianti permettono alle diverse cultivar di esprimere il massimo potenziale di accrescimento e produzione, mantenendo costi di produzione relativamente bassi. Le operazioni colturali richiedono maggior meccanizzazione. La raccolta viene eseguita prevalentemente con l’ausilio di macchinari. In questo sistema olivicolo si riduce la quantità di prodotto per singola pianta ma aumenta la produzione per unità di superficie.
In entrambe le olivicolture il metodo di allevamento è la forma a vaso, con angoli delle branche più stretti del tradizionale. Il che permette la corretta meccanizzazione delle operazioni di raccolta, sia con lo scuotitore sia con aste vibranti. Questi sistemi generalmente sono in irriguo e danno buone produzioni e oli qualitativamente eccellenti. Una caratteristica tipica dell’olivicoltura specializzata invece è stata la monocultivar. Ossia un’unica varietà su tutto l’appezzamento di terreno.
Con questa evoluzione si è determinata la standardizzazione degli oli per aree ben definite. In pratica in ogni Regione, ma spesso anche in ogni provincia della stessa, prevale e si adatta una singola varietà (dal gusto specifico). Questo permette di avere una serie di gusti, sapori, odori, fragranze diversi e ben definiti. Un patrimonio immenso di tradizioni locali che affondano nei secoli, a dimostrare come la nostra storia e le nostre radici siano legate anche a certi tipi di coltivazioni.
Il modello spagnolo e l’arrivo dell’olivicoltura intensiva
Ma col tempo si arriva all’olivicoltura intensiva. Si basa essenzialmente sulle tipologie di allevamento utilizzate in Spagna, e prevede la messa a dimora di piante che variano dalle 1000 alle 2500 per ettaro a seconda della cultivar e della vigoria. Questo impianto ha un’elevata meccanizzazione. E ritmi produttivi che tendono a stressare le piante. Queste vengono mantenute con chiome piccole e distanziate anche di 3,5 m x 1,2 m a filari paralleli. Ad esempio l’Arbequina (una varietà spagnola diffusa in tutto il mondo ndr) è coltivata a 4 m ×1,5 m (1.667 piante/ha).
I costi di gestione sono elevati per l’irrigazione, ma la produzione per ettaro è molto elevata. Potatura e raccolta vengono eseguite con macchine potatrici e raccoglitrici, come scuotitore e scavallatore. Ma la distinzione fra questi diversi modelli, che per semplicità riduciamo a due – tradizionale e intensivo – non è rappresentata solo dal numero di piante per ettaro. La questione è molto più complessa e articolata e ci riguarda anche come consumatori. Questo passaggio incide infatti sulle varietà coltivate. E quindi sul patrimonio genetico, sulla qualità degli oli e sulla biodiversità. Sullo spreco risorse idriche e sull’habitat paesaggistico. Nonché sui prezzi di mercato.
Modificare le varietà significa mutare il patrimonio genetico e impoverire la biodiversità
L’albero di olivo è una pianta maestosa ed imponente, svettante verso l’alto, che dà il senso della potenza della natura. Questa pianta tende a svilupparsi in altezza. E a collocare la propria produzione sui rami più alti per una tendenza che in agronomia si chiama acropeto. Nelle nostre varietà nazionali (autoctone e non) questa tendenza è molto marcata a differenza della varietà spagnole. Per questo, le nostre cultivar non si adattano alla coltivazione intensiva. E pertanto per implementare questo sistema si devono necessariamente utilizzare varietà dal portamento cespuglioso.
Il che, per essere chiari, significa che per gli oliveti intensivi si usano varietà di origine spagnole. E questo significa soppiantare le nostre varietà di cultivar tradizionali con tipologie nuove e diverse. Producendo un inevitabile impoverimento della biodiversità che è diretta conseguenza del mutamento di patrimonio genetico, con rischio di estinzione dello stesso e con la perdita irreversibile delle varietà autoctone.
Dalle piogge all’irrigazione massiccia, dagli alberi ai cespugli
Anche in questo caso c’è una differenza abissale fra olivicoltura tradizionale e olivicoltura intensiva. La prima era fatta generalmente in asciutto e la sola risorsa idrica era quella naturale delle piogge. Con l’avvento dell’olivicoltura specializzata si è iniziato a prevedere l’irrigazione moderata e in emergenza (generalmente a goccia). Con l’implementazione dell’olivicoltura intensiva invece l’irrigazione diventa un punto fermo e imprescindibile, da un lato l’elevato numero di piante per ettaro e dall’altro il portamento cespuglioso determinano un’elevata traspirazione fogliare e una altrettanto elevata richiesta idrica.
Proviamo a dare qualche dato, il fabbisogno idrico stagionale della coltura tradizionale si attesta su 0 (ossia solo le piogge). Per l’olivicoltura specializzata si va da 350 a 600 metri cubi/ettaro (350-600 mila litri) per ettaro/anno a seconda della stagione. Per l’olivicoltura intensiva il fabbisogno annuo si attesta 1.300-1.500 metri cubi/ettaro (1,3-1,5 milioni di litri). E in un periodo storico di cambiamenti (devastazioni) ambientali, con intere zone del pianeta che non hanno nemmeno accesso all’acqua potabile, lo spreco diventa ancora più evidente.
Mentre per quello che riguarda l’habitat paesaggistico basti pensare alle meravigliose distese di alberi rigogliosi e svettanti nel nostro Paese in un disordine ordinato e armonico. Alberi mastodontici dalle folte e contorte chiome, un immenso patrimonio di storia, un orgoglio millenario. Eco, con l’olivicoltura intensiva, questa immagine che connota il nostro paese sarà trasformata in una sequela interminabile di cespugli storicamente insignificanti. Come tanti soldatini in fila il cui unico scopo e produrre e non trasmettere null’altro.
Mancando la provenienza sulle etichette i prezzi li fa il mercato, non la qualità
La qualità dell’olio non si basa solo su caratteristiche chimiche, ma anche organolettiche, visive e sensoriali. Una cosa certa e buona è che gli olii da allevamenti intensivi sono caratterizzati da bassa acidità. Questo è determinato dal breve tempo che intercorre fra raccolta e trasformazione. Ma spesso si tratta di oli dal gusto neutro e dal colore standard. E poiché sull’etichetta non è riportata nessuna distinzione chi acquista olio di oliva commerciale, salvo che non sia DOP o IGP, non sa se si tratta di olio derivante da olivicoltura tradizionale o intensivo.
Eppure le produzioni da olivicoltura intensiva si attestano intorno ai 100 quintali per ettaro. Si tratta di coltivazioni interamente meccanizzate (potatura, raccolta, eccetera) e pertanto con costi di gestione e produzione nettamente inferiori rispetto al sistema tradizionale o specializzato. Si stima che l’olivicoltura tradizionale abbia una redditività di circa 450 euro/ettaro all’anno. Mentre quella intensiva di circa 1.000 euro/ettaro all’anno. Eppure i prezzi al dettaglio restano simili. Ecco perché è necessario, che il modello di olivicoltura intensivo sia normato, le sue produzioni controllate e certificate. Perché anche noi come consumatori abbiamo il diritto di sapere da dove viene e cosa c’è nell’olio che ogni giorno mettiamo in tavola.