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Da Panama ai tribunali: a due anni dall’inchiesta si muove la giustizia

Panama Papers: gli USA procedono con le prime incriminazioni. Deutsche Bank nel mirino in Germania. Ma l’elusione resta una zona grigia

Matteo Cavallito
Washington, il Dipartimento di Giustizia degli Stati © Coolcaesar/Wikimedia Commons
Matteo Cavallito
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Sono passati più di due anni dallo scoppio della vicenda Panama Papers. E per la giustizia sembra arrivato il momento di agire. Sulle due sponde dell’Atlantico l’attività degli inquirenti conosce un’accelerazione. Stati Uniti, Germania, poi chissà. La bomba sganciata nel 2016 dall’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), con un’inchiesta diventata anche oggetto di un documentario proiettato oggi in anteprima nazionale a Milano, ha dimensioni mai viste. Sulle scrivanie degli inquirenti oltre 40 anni di operazioni sospette condotte dallo studio legale Mossack Fonseca di Panama City. Evasione e riciclaggio le più ovvie ipotesi di reato.

USA: arrivano le prime incriminazioni

Ai primi di dicembre si è mossa la giustizia USA che ha dato il via alle prime incriminazioni alla vicenda. Nel mirino del Dipartimento di Giustizia, per ora, sono finiti in quattro: gli ex dipendenti della Mossack Fonseca, Ramses Owens e Dirk Brauer, accusati di aver contribuito allo schema criminale messo in piedi dalla società panamense, un contabile statunitense, Richard Gaffey, e un presunto evasore, Harald Joachim Von Der Goltz. Per questi ultimi due le accuse sono particolarmente pesanti: evasione, frode e riciclaggio di denaro.

Un’operazione internazionale

«Gli imputati hanno fatto di tutto per eludere le leggi fiscali degli Stati Uniti e preservare la loro ricchezza e quella dei loro clienti» ha dichiarato il procuratore Geoffrey S. Berman, ripreso dall’ICIJ. Si parla di milioni di dollari evasi attraverso conti offshore e società di comodo. Decisiva, per gli arresti, la collaborazione delle autorità francesi (che hanno fermato Brauer a Parigi) e britanniche (Von Der Goltz, a Londra). Gaffey è stato bloccato a Boston, Owens – che è cittadino di Panama – è latitante.

Da Panama a Francoforte

Nel mirino delle autorità tedesca è finita invece Deutsche Bank. La “bomba” made in Panama è scoppiata a fine novembre quando sono scattate le perquisizioni negli uffici del più grande istituto tedesco, ex orgoglio nazionale diventato ormai fonte di crescente imbarazzo.

Il raid negli uffici della banca ha coinvolto 170 agenti impegnati a raccogliere materiale probatorio. L’accusa per l’istituto? Aver aiutato circa 900 clienti a creare società fittizie nei paradisi fiscali per riciclare denaro sporco.

L’ammontare presunto dei capitali finiti in lavanderia si aggirerebbe sui 311 milioni di euro. Markus Meinzer, direttore della divisione financial secrecy della Ong Tax Justice Network, ha ironizzato sulla lentezza della giustizia tedesca: «Sono sorpreso dal fatto che le autorità tedesche abbiano finalmente preso l’iniziativa» ha dichiarato, «hanno analizzato i documenti per due anni».

Zone grigie. Deplorevoli ma spesso non illecite

E gli altri presunti illeciti? Le operazioni sospette di banche e clienti emerse in quel marasma da 11,5 milioni di documenti scoperti dall’inchiesta giornalistica e tuttora consultabili? Tutti da valutare, e con un a certa cautela. Perché nel mare magnum dei Panama Papers, è bene ricordarlo, abbondano le operazioni borderline, zone grigie dove la legge non arriva.

È la solita vecchia storia dell’elusione, la pratica di ottimizzazione fiscale che sfrutta proprio le pieghe delle normative. Una sorta di evasione de facto molto spesso legale.

«Il vero scandalo è che molti dei casi scoperti dall’ICIJ sono moralmente deplorevoli ma non illegali» commentava allora la direttrice delle campagne di Oxfam Italia, Elisa Bacciotti. «L’elusione fiscale colpisce trasversalmente i contribuenti onesti, crea svantaggi competitivi per le piccole e medie imprese nazionali e priva le casse degli Stati di risorse essenziali per l’erogazione di servizi di base per i cittadini».