Paradisi fiscali: il jackpot delle banche francesi
Ma cosa ci fanno delle banche nei paradisi fiscali? Sono anni che alcune ONG francesi si pongono la domanda e tentano di trovare una risposta.
Ma cosa ci fanno delle banche nei paradisi fiscali? Sono anni che alcune ONG francesi si pongono la domanda e tentano di smontare i rapporti annuali degli istituti bancari per trovare una risposta. Per la prima volta quest’anno le loro conclusioni sono perfettamente informate circa le attività delle banche e delle loro filiali ovunque nel mondo.
Il rapporto pubblicato nelle scorse settimane da CCFD-Terre solidaire, Oxfam e Secours catholique-Caritas (in partenariato con la “Piattaforma Paradisi fiscali e giudiziari”) si appoggia in effetti sulle cifre dettagliate fornite dalle banche stesse. La legge di separazione bancaria del luglio 2013, infatti, le ha costrette a piegarsi al “reporting paese per paese”, un concetto inventato all’inizio degli anni 2000 dagli attivisti del Tax Justice Network e riconosciuto poco a poco da tutte le istanze internazionali.
L’anno scorso le banche avevano svelato alcuni dei dati riguardanti le loro filiali, ma si è dovuto aspettare questi ultimi mesi perché l’obbligo di pubblicazione arrivasse a toccare tutti i parametri. E gli osservatori possono adesso sapere, per ogni banca e per quasi tutte le loro filiali ovunque nel mondo, qual è la natura della loro attività, i loro effetti, le cifre d’affari e i profitti, così come le imposte pagate e le sovvenzioni ricevute.
Il rapporto pubblicato nelle scorse settimane analizza le cifre 2015 fornite dalle cinque più grandi banche francesi: BNP Paribas, BPCE, Crédit agricole, Crédit mutuel-CIC, Société générale. E le conclusioni sono senza appello: un quarto delle attività internazionali delle banche francesi (13,5 miliardi di euro su 53 miliardi) è realizzato in paesi considerati come paradisi fiscali, regolamentari e giudiziari, e un terzo dell’insieme delle loro filiali si trovano in questi paesi (641 filiali su 1.854). Per questo studio le ONG hanno utilizzato la lista dei “paradisi” redatta ogni due anni da Tax Justice Network.
Per gli autori del rapporto, senza alcun dubbio, gli indizi concordano: «Le banche usano i paradisi fiscali per fini di evasione normativa e fiscale». Primo indizio: le banche francesi realizzano un terzo dei loro profitti internazionali nei paradisi fiscali. E il Lussemburgo, buco nero della finanza europea, «accoglie da solo l’11% dei loro profitti internazionali». È il Crédit mutuel-CIC che si distingue maggiormente, con il 44% di tutti i profitti internazionali dichiarati nei paradisi fiscali.
Attività molto lucrative
Va detto che le attività bancarie sono il 60% più lucrative nei paradisi fiscali rispetto al resto del mondo. I dati sono diversi: le attività della Société générale rendono più di quattro volte più che negli altri paesi. In Irlanda le attività della Société générale generano 18 volte più profitti che negli altri paesi e… 76 volte più che in Francia dove esercita soprattutto attività classiche di banca commerciale (sportello, prestito a privati e imprese…). Il Crédit mutuel è la sola banca che ha un tasso di redditività più debole nei paradisi fiscali che negli altri paesi. Senza dubbio perché esercita meno attività di banca di finanziamento e investimento.
Alcuni casi non possono non attirare l’attenzione: a sei riprese, specialmente alle Cayman, le cifre d’affari dichiarate sono equivalenti ai profitti generati! «La banca non ha nessuna spesa o costo di funzionamento in questo territorio, pur generandovi profitti? Trasferisce artificialmente i suoi profitti nel territorio in questione? O allora beneficiano della flessibilità dei regolamenti offerta da queste giurisdizioni per dedicarsi ad attività speculative e rischiose, ma molto lucrative?» La risposta non è scontata, ma «il collegamento è evidente tra i profitti e l’attività economica reale».
Molti dipendenti in meno
Queste cifre sono molto curiose, soprattutto considerando che in media le banche hanno tre volte meno impiegati nei paradisi fiscali rispetto agli altri paesi. Alcune filiali funzionano addirittura senza dipendenti. I cinque istituti non hanno alcun dipendente alle Bermuda, a Cipro, alle Isole Cayman, nell’Isola di Man e a Malta. «La palma del guscio vuoto spetta alle Isole Cayman: le cinque banche francesi possiedono in tutto 16 filiali, ma nessuna dichiara dipendenti». Nemmeno BNPP, che tuttavia dichiara di possedere due banche dalle caratteristiche delle banche commerciali, né Crédit agricole che dichiara 35 milioni di euro di profitti». Spiegazione? Le Isole Cayman e le Bermuda sono note per la facilità con la quale si possono creare delle “società ad hoc” («special purpose vehicle»), cioè dei gusci vuoti «favorevoli a un indebitamento eccessivo senza che questo appaia nei bilanci contabili del gruppo».
Conseguenza diretta, gli impiegati sono 2,6 volte più produttivi nei paradisi fiscali che altrove. Quelli della Société générale rendono anche «quasi 12 volte più profitti nei paradisi fiscali che negli altri paesi e 39 volte più che in Francia»….
Dei Paesi specializzati
Come spiegare questi dati? «Le attività più rischiose e speculative si trovano sempre nei paradisi fiscali», ricorda il rapporto. Per esempio, l’Irlanda è senza dubbio il paese in cui i salariati sono più produttivi: quelli del gruppo BPCE lo sono 31 volte più di un dipendente medio della banca e la produttività dell’impiegato irlandese del Crédit agricole è 147 volte superiore a quella dell’impiegato francese. Ma «queste cifre riflettono meno una forza lavoro più competente in Irlanda che la specificità, fiscale e normativa, del territorio»: da un punto di vista fiscale, l’Irlanda offre in effetti dei tassi d’imposta sui profitti tra i più bassi in Europa (12,5%), importanti esenzioni fiscali nei campi della ricerca e sviluppo e della proprietà intellettuale.
E non è tutto. L’irlanda è anche un paradiso normativo: «Il paese ha messo a punto delle norme giuridiche note per la loro flessibilità e adatte ad attività di mercato molto rischiose», come le società ad hoc. Risultato, 75% delle filiali di BNP Paribas che hanno base in Irlanda – 15 su 20 – sono dedicate ad attività di banca di intestimento e finanziamento…
Poche imposte da pagare
Ma le banche non si impiantano nei territori offshore solo per sviluppare attività lucrative. A volte, la loro semplice presenza è sinonimo di jackpot. Le imposte che esse vi pagano sono in effetti quasi due volte meno consistenti che altrove (16,8% contro 30%). E in 19 casi le banche francesi non pagano nemmeno un euro di imposte, anche se generano profitti. Questo può essere previsto dalla legislazione locale (alle Bahamas, alle Bermuda, a Guernesey) o no: la Société générale non paga nulla né a Cipro né in Irlanda, e ciò significa che ha negoziato un accordo molto vantaggioso con l’amministrazione fiscale locale. Sempre in Irlanda, solo la BNP raggiunge il tasso legale di 12,5% di imposizione, ma BPCE paga circa il 6% di imposte e il Crédit agricole il 4%.
Presto tutte le imprese?
In conclusione, gli autori del rapporto sottolineano fino a che punto i dati forniti dalle banche si sono rivelati difficili da analizzare, sia perché i dati rilasciati in PDF hanno richiesto di essere ritrattati uno a uno a mano, sia perché ogni istituto ha stabilito le proprie regole per dichiarare le proprie attività ed è stato complicato uniformare i dati. In particolare, per quanto possa sembrare sorprendente, perché sono le banche stesse che decidono quali filiali includere nella loro dichiarazione.
Senza contare che i dati non sono sempre resi noti seriamente: «Troviamo dei paesi in cui la banca indica di avere una o più filiali, ma che non figurano nel reporting paese per paese». Ad esempio, la BNP dichiara avere una filiale alle Bermuda, ma le Bermuda non risultano nella lista dei territori dove BNPP è presente, secondo il suo rapporto. «È possibile osservare anomalie simili per tutte le banche» assicurano gli osservatori delle ONG. Tuttavia, vogliono credere, questo esercizio «prova che la trasparenza è possibile e che non rappresenta né un costo esorbitante né una minaccia per la competitività delle banche».
Il rapporto auspica che lo stesso esercizio imposto alle banche diventi obbligo per tutte le aziende. Ad ora, i paesi del G20 e dell’OCSE hanno adottato a novembre scorso l’obbligo di reporting paese per paese per le multinazionali, ma limitato alle amministrazioni fiscali, quindi non pubblico. Eppure, il Parlamento europeo aveva adottato a luglio 2015 un emendamento favorevole al reporting pubblico e poi ricordato per tre volte il suo sostegno al principio. E anche la Commissione europea, anche se diretta dall’ex primo ministro del Lussemburgo Jean-Claude Juncker, ha annunciato il suo favore. Non resta altro che convincere i capi di Stato europei…