Paradisi per le disuguaglianze
Quali sono gli impatti dei paradisi fiscali? Il più evidente è il favorire l’evasione fiscale e la fuga di capitali, sottraendo agli Stati risorse ...
Quali sono gli impatti dei paradisi fiscali? Il più evidente è il favorire l’evasione fiscale e la fuga di capitali, sottraendo agli Stati risorse essenziali per assicurare ai cittadini i servizi essenziali.
Una delle dirette conseguenze è quindi l’aumento delle disuguaglianze: ad approfittare dei paradisi fiscali sono soprattutto le grandi imprese e le persone più facoltose, mentre il malfunzionamento dei servizi pubblici colpisce principalmente i poveri e le fasce più deboli della popolazione. Le stesse giurisdizioni e gli stessi meccanismi che consentono a imprese e ai più ricchi di non pagare le tasse o di nascondere le proprie fortune all’estero sono inoltre spesso dietro riciclaggio, corruzione e permettono, o almeno facilitano, i traffici illegali e le attività criminali.
C’è anche un altro impatto, meno evidente, che esaspera disuguaglianze e ingiustizia: i paradisi fiscali creano una concorrenza sleale tra grandi multinazionali e piccole imprese locali.
Le prime possono giostrare tra le proprie filiali, anche creandone ad hoc in territori offshore, mentre una piccola azienda legata a un determinato territorio non ha a disposizione simili trucchi e scappatoie.
La concorrenza sleale riguarda le singole imprese, ma in maniera ancora più devastante gli Stati. Da decenni assistiamo a una vera e propria corsa verso il fondo tra governi in materia di normative ambientali, sociali e in misura determinante fiscali. Con la libertà di movimento dei capitali e la delocalizzazione delle attività produttive, le maggiori multinazionali possono scegliere per ogni operazione lo Stato che assicura loro le condizioni migliori. Così posso spostare il mio impianto produttivo in Cina o nelle maquiladoras del Messico per sfruttare la debolezza delle leggi sui diritti del lavoro o ambientali. Analogamente posso scegliermi la sede legale e quella fiscale in modo da “ottimizzare” il mio carico fiscale.
La conseguenza è una concorrenza tra governi per assicurare alle grandi aziende le migliori condizioni, pur di attrarre capitali e investimenti. E’ così che negli ultimi anni in tutte le maggiori economie sono diminuite le aliquote fiscali sulle imprese. Il risultato, per l’ennesima volta, si traduce in maggiori disuguaglianze e ingiustizia. Per compensare le minori entrate fiscali gli Stati hanno infatti due possibilità: spostare il carico fiscale su lavoratori e su chi non può scegliersi una residenza di comodo in giro per il mondo, o tagliare sui servizi pubblici, a partire da istruzione, sanità e pensioni, per fare quadrare i conti.
Non sono solamente le aliquote a diminuire. Gli Stati ricorrono sempre più spesso ad accordi ad hoc con la singola impresa multinazionale, alla quale vengono garantiti trattamenti fiscali di favore. Sono gli Advanced Pricing Agreements (APAs) noti anche come “sweetheart deals”, letteralmente accordi tra innamorati, in cui un governo negozia direttamente con la singola impresa le condizioni fiscali (aliquote, esenzioni e altro ancora). A marzo 2018 la Commissione ha pubblicato i dati aggiornati al 2016 sugli APAs. Complessivamente sono oltre 1.500 quelli firmati con imprese dell’UE e oltre 700 quelli extra-europei. Per l’Italia parliamo di una quarantina sia intra-UE sia extra-UE, per la Spagna rispettivamente 39 e 14. La parte del leone in Europa la fanno prima di tutto il Belgio (650 e 440) e il Lussemburgo (599, tutti intra-UE). Sembrerebbe che alcuni Paesi siano decisamente più disponibili di altri a sedersi al tavolo con le imprese multinazionali per discutere di fisco. Guarda caso, uno di questi è proprio il Lussemburgo, dove l’attuale presidente della Commissione UE Juncker è stato per quasi un ventennio ministro delle Finanze e Primo ministro.
Al di là di quanto emerso anche con lo scandalo denominato Luxembourg Leaks circa le condizioni di favore concesse dal Granducato a molte mulintazionali, la sensazione che rimane è che anche nel vecchio continente, per lo meno in materia fiscale, si debba parlare più di “Competizione” che non di “Unione” Europea, con governi che fanno a gara per attrarre le imprese, offrendo loro condizioni via via migliori. Se è cosi in un territorio dotato di moneta unica, istituzioni comuni e con un percorso di integrazione lungo decenni, non è difficile immaginare quanto possa essere esasperata la corsa verso il fondo su scala globale.
Principalmente a causa dei giganteschi interessi in gioco, la comunità internazionale non è stata in grado di perseguire un approccio cooperativo alla questione. Non esistono accordi internazionali che definiscano cos’è un paradiso fiscale, né tantomeno un’istituzione ad hoc per stabilire regole comuni in materia di tassazione.
Solo per fare un esempio, perché per decenni i governi si sono spesi ai massimi livelli su scala internazionale per portare avanti il libero commercio nella WTO – World Trade Organisation, ma non è mai stata messa in piedi una World Tax Organisation? E’ una questione tecnica o di volontà politica?
Fino a oggi, l’approccio si è limitato a pubblicare liste nere e grigie di presunti paradisi fiscali, inseguendo l’isoletta tropicale di turno per provare a imporre una maggiore trasparenza o una specifica normativa. Un approccio destinato a fallire almeno per tre motivi. Primo, quando parliamo di paradisi fiscali parliamo di un vero e proprio mercato dell’evasione, della segretezza, del riciclaggio, in cui ogni giurisdizione cerca di offrire alle imprese e ai capitali determinati servizi, occupando una specifica nicchia di questo mercato. Se anche si obbliga un territorio offshore a modificare una sua normativa, il giorno dopo un altro ne prenderà il posto. Secondo, in base alle analisi più approfondite, come quella del Tax Justice Network, le giurisdizioni con maggiore segretezza non sono sperduti atolli tropicali, ma spesso tra le più importanti economie del pianeta: nella top ten del Financial Secrecy Index troviamo Svizzera, USA e Germania. Terzo, invece di guardare unicamente dove finiscono i soldi, sarebbe il caso di capire chi ne trae profitto, e iniziare a intervenire a monte.
In questa direzione, da tempo è stata avanzata la proposta, oggi discussa in sede UE, di obbligo per tutte le imprese multinazionali di pubblicare i propri bilanci suddivisi in ogni giurisdizione in cui operano (Country by Country reporting). Si tratta di una delle misure più importanti che potrebbero essere prese non solo contro l’evasione fiscale ma anche per contrastare riciclaggio internazionale e traffici illeciti. In maniera ancora più generale, risalire a monte significa ripensare alcuni degli assunti che regolano il funzionamento del sistema finanziario globale. Primo tra tutti la completa libertà di movimento dei capitali, vero e proprio dogma delle dottrine economiche dominanti negli ultimi decenni.
La completa liberalizzazione dei flussi di capitale è tra i motivi fondamentali alla base del proliferare dei paradisi fiscali, della corsa verso il fondo tra Paesi, dell’incapacità dei governi di tassare i patrimoni mobiliari e finanziari, del crescere delle disuguaglianze.
A fronte dell’insostenibilità della situazione attuale e dei fallimenti degli approcci seguiti, dobbiamo allora rimettere in discussione alla radice concetti oggi dati per assodati, e tra questi in primo luogo la liberalizzazione dei flussi di capitali. Servono nuove regole per chiudere il casinò finanziario e fermare i disastri provocati dai paradisi fiscali. Prima ancora che non su quello economico e finanziario, è sul piano culturale e della visione politica che occorre muoversi, ed è soprattutto qui che servono un coraggio e una lungimiranza che fino a oggi sono completamente mancati.