I parametri Esg, l’ennesima vittima delle guerre
Con l'attenzione monopolizzata dalle guerre, diventa ancora più difficile prendere posizione contro l'industria delle armi
Una vittima delle guerre in corso è l’idea stessa che sia possibile costruire una forma di capitalismo etico. Certo, nulla a che vedere con le vere vittime, gli umani, le decine di migliaia di donne, anziani e bambini morti innocenti in questi mesi in Russia, Ucraina, Israele, Palestina e nel resto del mondo. Sempre per interessi economici a loro sconosciuti. Ma la scomparsa dell’etica negli investimenti finanziari resta una vittima, o se preferite un effetto collaterale, delle guerre. E del gigantesco mercato delle armi che le alimentano, in cui le industrie del settore fatturano ogni anno la ragguardevole cifra di 5mila miliardi di dollari.
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Il governo britannico corre in difesa delle armi
L’ultimo esempio in ordine di tempo arriva dal Regno Unito. Dove il ministro per la Difesa Grant Shapps ha definito «immorale» il fatto che, in questo periodo di guerre, alcune aziende abbiano anche solo immaginato di non fare investimenti finanziari in aziende collegate alla produzione di armi, in ossequio ai parametri Esg (i minimi requisiti in temi ambientali, sociali e di governance). «Non c’è nulla di poco etico nel sostenere l’industria degli armamenti, che ci permette di difendere il nostro stile di vita, soprattutto in questo periodo di incertezza globale», ha detto Shapps. Una frase che in bocca a un dittatore sarebbe suonata terribile ma che, evidentemente, un ministro di una democrazia liberale può permettersi di dire.
Tutto era nato da una lettera mandata ai suoi investitori da Aviva, una delle più grandi compagnie di assicurazioni al mondo e uno dei maggiori investitori finanziari nell’economia britannica. Aviva, con sede a Londra, ha circa trenta milioni di clienti in sedici paesi, e gestisce investimenti finanziari per oltre 220 miliardi di sterline, per la maggior parte assicurativi o relativi ai fondi pensione. E la settimana scorsa aveva inviato una lettera ai suoi investitori in cui diceva che, in ossequio a parametri Esg, avrebbe cominciato a disinvestire nelle compagnie che fanno profitti con le energie fossili, le armi, il tabacco e la devastazione ambientale. Perché queste aziende non rispettavano i minimi standard morali cui la multinazionale voleva conformarsi.
Il dietro front di Aviva dimostra che anche l’etica è vittima delle guerre
Apriti cielo! Alla parola «armi», il governo britannico è andato su tutte le furie, ricordando quanto siano etiche le armi che permettono al Regno Unito di continuare a vivere secondo i suoi standard abituali. Aviva non è stata la prima azienda che prova a togliersi dal commercio d’armi. Tanto che è già da un paio di anni che diverse voci di produttori di morte puntualmente si levano contro le “nuove regole etiche” della City londinese che, a loro dire, fanno perdere alle loro aziende un sacco di soldi. Ma Aviva è un pesce troppo grosso. E stavolta è intervenuto il governo.
E così Aviva è dovuta tornare sui suoi passi. Cospargendosi il capo di cenere e diffondendo un comunicato in cui spiegava di essere sempre stata, e di voler continuare a essere, una «grande sostenitrice del settore della difesa britannico, che da sempre protegge i diritti umani (sic!) e mantiene l’ordine globale». «Aviva – prosegue il comunicato – ogni anno investe circa 600 milioni di sterline nelle azioni di questo settore ed è intenzionata a continuare a farlo». Alla faccia di tutte le valutazioni etiche, e della remota possibilità che possa esistere un mercato finanziario sostenibile. Ed ecco che l’etica e la giustizia diventano l’ennesima vittima collaterale delle guerre. E del mercato delle armi, che le guerre produce e le sostiene.