Patrimoniale ai Paperoni: giusta, ma in Italia frutterebbe non più di 6 miliardi

Negli Usa era stata proposta da alcuni candidati Democratici. Lì produrrebbe un extra-gettito di $210 miliardi (1% del Pil). Da noi gli effetti sarebbero ben più limitati

Alessandro Santoro
Alessandro Santoro
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Il dibattito sull’imposta patrimoniale sta tornando all’attenzione sul piano internazionale a seguito della proposta, avanzata dalla senatrice Warren, candidata alle primarie presidenziali per il partito democratico, di introdurre un’imposta progressiva a due aliquote per i patrimoni di entità superiore a 50 milioni di dollari.

Due aliquote sopra il miliardo di dollari per lo 0,06% delle famiglie Usa

Le due aliquote sarebbero dell’1% fino a 1 miliardo di dollari e del 3% per la parte di patrimonio superiore a 1 miliardo di dollari. Secondo le stime di Emmanuel Saez e di Gabriel Zucman dell’Università di Berkeley, due tra i principali economisti del mondo in questo ambito, una simile imposta darebbe un gettito annuo di circa l’1% del Pil USA, ovvero circa 210 miliardi, pur coinvolgendo solo lo 0,06% più ricco delle famiglie americane.

Questo risultato dipende da due fenomeni che si presentano contemporaneamente nella distribuzione della ricchezza negli Stati Uniti:

  • una grande concentrazione della ricchezza in mano a pochi, fenomeno comune a tutti i paesi capitalisti.
  • e un elevato livello medio di ricchezza. Negli Stati Uniti vi sono 130 milioni di famiglie, e le 75mila più ricche (ovvero lo 0,06% appunto) hanno circa il 10% della ricchezza totale.
Due americhe a confronto: la ricchezza familiare detenuta dal 90% della popolazione più povero e dallo 0,1% più ricco. FONTE: Emmanuel Saez, Gabriel Zucman - University of Berkeley
Due americhe a confronto: la ricchezza familiare detenuta dal 90% della popolazione più povero e dallo 0,1% più ricco. FONTE: Emmanuel Saez, Gabriel Zucman – University of Berkeley

Ecco perché, applicando due aliquote relativamente basse, si potrebbe ottenere un gettito notevole. Questi dati, inoltre, sono relativamente certi, perché le due fonti utilizzate (l’indagine campionaria sulla ricchezza delle famiglie, SCF, e la nuova base dati DINA) risultano tra loro coerenti.

Come vedremo, nel caso italiano le cose stanno un po’ diversamente, ed è probabile che il gettito ottenibile sia molto inferiore. Prima di esaminare la situazione del nostro Paese, però, conviene soffermarsi sull’origine culturale di questa e di altre proposte che hanno recentemente animato il dibattito pubblico americano.

I risultati della ricerca accademica “progressista”

Per decenni la ricerca economica sviluppata nelle università americane ed inglesi è stata portatrice di una visione, per così dire, mercato-centrica che considerava l’intervento pubblico in generale, e le imposte in particolare, con grande scetticismo. Ma nel nuovo secolo qualcosa è cambiato.

Gli studi del compianto Anthony Atkinson, di Peter Diamond, di Thomas Piketty e di Emmanuel Saez, tutti economisti con una reputazione accademica di livello mondiale (Peter Diamond ha anche vinto il premio Nobel nel 2010), hanno messo in discussione una serie di risultati che si consideravano, fino ad allora, acquisiti (e venivano quindi tranquillamente trasposti nei libri di testo su cui si formavano, e in parte ancora oggi si formano, gli studenti di economia di tutto il mondo).

L'economista Peter Diamond durante la sua lectio all'Accademia svedese delle Scienze in occasione del conferimento del Premio Nobel 2010
L’economista Peter Diamond durante la sua lectio all’Accademia svedese delle Scienze in occasione del conferimento del Premio Nobel 2010

Le ricerche di Diamond e Saez, basate su metodologie empiriche di frontiera, hanno dimostrato quanto fosse infondata l’idea, più che aveva dominato gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, secondo cui le aliquote sui redditi dei più ricchi (cosiddette top marginal income tax rates) debbano essere mantenute relativamente basse per evitare che i ricchi stessi lavorino di meno o evadano di più.

Redditi più elevati: l’aliquota ottimale è del 73% e non del 42,5% attuale

Una misurazione rigorosa di questi effetti di sostituzione (che, pure, esistono) ha infatti condotto a quantificare, in un paper pubblicato sull’American Economic Review, l’aliquota ottimale per i top incomes negli Stati Uniti in un livello pari 73%, contro il 42,5% attualmente applicato.

Ciò che più importa è che queste idee siano uscite dalle aule accademiche e si siano affermate nel dibattito politico statunitense, dove la deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez ha proposto che l’aliquota massima dell’imposta sul reddito sia appunto collocata tra il 70 e l’80%, e che il gettito sia utilizzato per finanziare un Green New Deal.

Anche per le imposte sui redditi da capitale, e sul patrimonio, il percorso è simile. Dopo che per anni si è ipotizzato che queste fossero inefficienti per i loro effetti negativi sul risparmio e quindi sull’investimento, studi più recenti hanno drasticamente ridimensionato queste preoccupazioni, proponendo aliquote piuttosto elevate sui redditi da capitale e la possibilità di integrare o sostituire queste ultime con vere e proprie imposte patrimoniali.

Una nuova riflessione nel dibattito sulle disuguaglianze

Ad esempio, in un paper pubblicato su Econometrica, Piketty e Saez hanno quantificato l’aliquota ottimale delle imposte sull’eredità in un valore compreso tra il 50 e il 60%. Queste riflessioni vanno contestualizzate nell’ambito del dibattito globale sulle disuguaglianze, che sono cresciute ma soprattutto sono mutate di forma, diminuendo tra i paesi (la cosiddetta diseguaglianza between) ma aumentando all’interno (within) dei Paesi.

Il ruolo delle imposte patrimoniali come strumento per ridurre queste disuguaglianze è stato sottolineato sia da Atkinson, che si può considerare in un certo senso il padre di questo filone di ricerca e di impegno politico, sia da Piketty nel suo fortunato Capitale nel XXI secolo.

Ecco, quindi, da dove arriva il rinnovato interesse per le imposte progressive in generale e per quelle patrimoniali in particolare: dagli studi, ormai più che decennali, sviluppati da un insieme di economisti di livello mondiale, prevalentemente statunitensi o inglesi o comunque cresciuti in quelle università, che sono stati in grado di elaborare modelli di analisi matematicamente molto sofisticati, di testarli attraverso tecniche econometriche rigorose e di ottenerne risultati di importanza e chiarezza tali da influenzare direttamente il dibattito politico. A dimostrazione del fatto che esiste la possibilità di mettere in discussione le politiche economiche dominanti, almeno in parte, anche senza aspettare che arrivi una qualche nuova teoria del tutto spesso vagheggiata e ad oggi non raggiungibile.

Vantaggi e limiti di un’imposta patrimoniale

Come accennato in precedenza, i patrimoni, o capitali che dir si voglia, finanziari o immobiliari, possono essere tassati sia sui redditi che effettivamente generano (e allora parliamo di un’imposta sui redditi o sulle plusvalenze da capitale, talvolta definita imposta sulle rendite finanziarie quando riguarda i patrimoni finanziari) sia sulla loro consistenza (e allora parliamo propriamente di un’imposta patrimoniale).

Equivalente ad un’imposta patrimoniale è un’imposta sui redditi presunti dei capitali stessi, che può prendere la forma di un’imposta sui redditi maturati anche se non realizzati. La scelta tra queste diverse tipologie di imposta dipende da considerazioni di efficienza e di equità. Un’imposta sui patrimoni può essere più efficiente di un’imposta sui redditi perché quest’ultima può generare maggiori effetti di sostituzione, e quindi portare ad una più forte riduzione del tasso di risparmio e investimento.

Inoltre, un’imposta sulle plusvalenze finanziarie tende a distorcere le scelte di investimento, perché, per evitarne il pagamento, l’investitore potrebbe evitare il disinvestimento e perdere opportunità di guadagno (e lo Stato possibilità di gettito): si parla al riguardo di effetto lock-in. Un’imposta sui patrimoni evita questo problema, perché prescinde dal fatto che il reddito o la plusvalenza siano state effettivamente conseguite e quindi da una decisione di investimento o disinvestimento.

D’altronde, un’imposta sui patrimoni (o sui redditi presunti) può comportare problemi di liquidità, perché colpisce redditi che il titolare dei patrimoni potrebbe non avere ottenuto, e quindi costringere lo stesso a vendere parte del patrimonio tassato o comunque ad utilizzare altri redditi. Vi sono tantissimi altri aspetti da considerare, che riguardano l’efficienza nella gestione dell’imposta, la possibilità di far riscuotere l’imposta da un soggetto terzo, i problemi di privacy, eccetera.

L’indicazione da trarre è che, in termini di efficienza, la scelta tra imposte sui redditi da capitale ed imposte sui patrimoni è una questione aperta, da definirsi caso per caso (ci torneremo, infatti, per il caso italiano).

La patrimoniale riduce le disuguaglianze più delle imposte sui redditi

Più chiaro è l’impatto sull’equità del sistema fiscale e della distribuzione del reddito e della ricchezza. Normalmente i patrimoni sono più concentrati rispetto ai redditi, per cui un’imposta patrimoniale è in grado di ridurre la diseguaglianza in misura maggiore a parità di gettito. Tuttavia, questa possibilità è strettamente legata all’effettività dell’imposta, ovvero al fatto che i titolari dei patrimoni non possano sfuggire alla tassazione. Nel paper di Saez e Zucman a questa obiezione viene dedicata molta attenzione. Le principali conclusioni raggiunte dai due economisti sono le seguenti.

In primo luogo, un’imposta patrimoniale deve avere una base imponibile la più ampia possibile, evitando esenzioni e vie di fuga che verrebbero facilmente utilizzate dai contribuenti più ricchi per mascherare i loro capitali in modo da evitare la tassazione. Ad esempio, è necessario che siano tassati anche gli asset posseduti attraverso veicoli societari, ovvero i capitali detenuti in società non quotate, perché altrimenti sarebbe semplice convertire in queste tipologie gli altri patrimoni finanziari.

L’importanza di un’amministrazione finanziaria efficiente

In secondo luogo, la capacità di nascondere i capitali dipende crucialmente dall’efficienza dell’amministrazione finanziaria che, a sua volta, è legata alla possibilità di avere informazioni da parti terze (in primis: i gestori dei patrimoni finanziari) circa la consistenza dei patrimoni tassati.

Nei Paesi dove queste condizioni si verificano (Svezia e Danimarca) di fronte all’introduzione di un’imposta patrimoniale con aliquota dell’1% si osserva una riduzione solo dell’1% della ricchezza dichiarata e tassata, in quanto, in questi Paesi, l’amministrazione finanziaria ha molte ed affidabili informazioni sui patrimoni finanziari.

Nei Paesi dove l’efficienza dell’amministrazione finanziaria è inferiore (Colombia) o dove il segreto bancario riduce grandemente le possibilità di controllo (Svizzera) un’aliquota dell’1% riduce la ricchezza dichiarata in misura maggiore (addirittura fino al 30% nel caso svizzero).

Per gli Usa, la stima dei due autori è che un’aliquota del 2% ridurrebbe la ricchezza dichiarata, e quindi il gettito, di circa il 15% rispetto ad un’ipotesi di piena efficienza.

In terzo luogo, i titolari di patrimoni potrebbero cercare ulteriori vie di fuga dall’imposta, nascondendo i loro capitali all’estero o espatriando. Tuttavia, la seconda ipotesi è meno plausibile se l’imposta fosse globale e basata su un criterio di residenza, ovvero prevedesse l’inclusione nella base imponibile dei patrimoni ovunque posseduti dai contribuenti che hanno la residenza fiscale in Italia.

Il caso italiano

Il patrimonio privato complessivamente posseduto dalle famiglie italiane è stimato principalmente da due fonti: la Banca d’Italia, per la parte finanziaria, e l’Istat, per quella non finanziaria. La prima componente è stimata in circa 3,5 mila miliardi di euro al netto delle passività (mutui ed altri debiti), e la seconda in circa 6,5 miliardi di euro, per un totale di circa 10 miliardi di euro. Aggiungendo lo stock di attività non finanziarie possedute dalle imprese, pari a circa 3mila miliardi, il patrimonio privato complessivo è stimabile in circa 13mila miliardi, ovvero circa 8 volte il Pil italiano annuo.

stock di attività non finanziarie, per settore istituzionale. FONTE: Istat
stock di attività non finanziarie, per settore istituzionale. FONTE: Istat

I capitali finanziari sono gravati principalmente dalle imposte sui redditi che essi producono (effettivamente o presuntivamente). A loro volta, i redditi da capitale sono, in alcuni casi residuali, inclusi nell’imponibile Irpef e, nella maggioranza dei casi assoggettati ad imposte sostitutive dell’Irpef.

La prima ipotesi corrisponde soprattutto ai cosiddetti redditi da partecipazione, ovvero gli utili generati dalle società di persone o dalle associazioni in partecipazione che vengono imputati, a prescindere dalla loro effettiva distribuzione, ai soci. In tutti gli altri casi, i redditi generati da utili, sotto forma di dividendi, plusvalenze o interessi sono assoggettati ad imposte sostitutive.

35,7 miliardi di imposte dalle attività finanziarie

Prendendo a riferimento i dati sulle dichiarazioni dei redditi dell’anno 2016 diffusi dal Dipartimento delle finanze, i redditi da partecipazione valgono circa 34 miliardi annui, cui si aggiungono 5 miliardi di altri redditi da capitale inclusi in Irpef, per un totale di 39 miliardi di euro di redditi da capitale inclusi in Irpef. Per calcolare le imposte corrispondenti a questi redditi, è necessario fare delle ipotesi circa la loro collocazione rispetto agli altri redditi delle persone fisiche.

Se si ritiene che questi redditi siano aggiuntivi rispetto a quelli ottenuti normalmente dal contribuente, e quindi scontino l’aliquota marginale massima pagata dal contribuente che li ottiene, si ottiene un’ipotesi di aliquota marginale media piuttosto elevata, pari al 39%.

Questo accade perché circa il 36% di questi redditi sono posseduti da individui che hanno, al netto dei redditi da capitale, un reddito complessivo medio superiore ai 75mila euro, e quindi già tassato in Irpef con un’aliquota del 43%.

Applicando l’aliquota marginale media stimata ai 39 miliardi di euro di redditi da capitale inclusi nella base imponibile dell’Irpef si ottiene una stima della relativa imposta pari a circa 14,3 miliardi di euro annui.

Utilizzando i dati che sempre il Dipartimento delle finanze diffonde sulle entrate tributarie, d’altraparte, risulta che l’ammontare delle imposte sostitutive sui redditi di capitale non inclusi in Irpef è pari a circa 21 miliardi di euro. Considerando che le aliquote gravanti su questi redditi sono, nella maggior parte dei casi, del 26%, ed in alcuni casi residuali pari al 12,5 o all’11%, e quindi che una ragionevole aliquota media possa collocarsi intorno al 23% i redditi non tassati in Irpef sono stimabili in un importo di circa 90 miliardi di euro.

Tabella 1: dati e stime sui redditi da capitale e sulle relative imposte (in milioni di euro, anno 2016)
Tabella 1: dati e stime sui redditi da capitale e sulle relative imposte (in milioni di euro, anno 2016)
*fonte: Dipartimento delle finanze-Analisi statistiche-Dichiarazioni 2017
°stima basata sulla distribuzione per classi di reddito complessivo (ipotesi aliquota marginale media=39,3%)
** fonte: Dipartimento delle finanze-Entrate tributarie-Anno 2016
°° stima basata sull’ipotesi di aliquota media del 23%

Complessivamente, quindi, i circa 3,5mila miliardi di euro di attività finanziarie genererebbero redditi di circa 130 miliardi annui, con un rendimento di circa il 3,8%, ed imposte per circa 35,7 miliardi di euro annui.

Il calcolo delle imposte gravanti sugli immobili è facilitato dalla disponibilità della pubblicazione “Gli immobili in Italia” che ricostruisce il prelievo complessivo derivante dalle diverse imposte.

Il prelievo fiscale sugli immobili in Italia Anni 2012-2016
Il prelievo fiscale sugli immobili in Italia Anni 2012-2016. FONTE: Elaborazioni su dati Dipartimento Finanze.

Una patrimoniale produrrebbe gettito aggiuntivo solo con un’aliquota dello 0,6%

In sintesi, le imposte sui redditi da capitale generano un gettito stimabile in circa 35 miliardi di euro annui, e quelle sui patrimoni immobiliari, sia di natura reddituale sia di natura patrimoniale, ammontano a circa 39 miliardi di euro, per un totale complessivo di circa 75 miliardi di euro annui. Rapportando questo valore ai circa 13mila miliardi di patrimonio complessivamente riconducibile alle famiglie italiane si ottiene l’aliquota implicitamente gravante su tale patrimonio, ovvero lo 0,6%.

Questo significa che, se fosse sostitutiva delle imposte oggi esistenti, un’imposta patrimoniale potrebbe generare un gettito aggiuntivo solo se si collocasse al di sopra di questo valore.

Attenzione a sovrastimare il gettito di una patrimoniale

Immaginiamo di applicare, ad esempio, un’imposta patrimoniale con aliquota fissa dell’1% e senza alcuna soglia di esenzione e di abolire, contemporaneamente, tutte le imposte esistenti sui redditi da capitale e sul patrimonio immobiliare. In base ai calcoli precedenti, si potrebbe concludere che il gettito netto sarebbe pari a 1% x 13mila miliardi-75miliardi=55 miliardi, un ammontare enorme. Ma è credibile un simile valore? No, e per diverse ragioni.

In primo luogo, i 13mila miliardi di base imponibile sono frutto di un calcolo statistico e aggregato, mentre l’applicazione dell’imposta richiederebbe di ricostruire il patrimonio di ogni singolo individuo o famiglia. Questo comporta il problema di dare un valore alle componenti del patrimonio che non sono quotate sul mercato (ad esempio le quote di società che non sono in borsa) e, laddove questo valore esiste, di applicarlo effettivamente. Ad esempio, per le abitazioni il valore medio di mercato è oltre 2 volte il valore ad oggi utilizzato per il calcolo dell’IMU (si veda “Gli immobili in Italia“, tabella 3.7) .

Distribuzione del VSM e del rapporto tra VSM e VIP per le abitazioni principali e le altre abitazioni (comprese le pertinenze)
Distribuzione del valore stimato di mercato (VSM) e del rapporto tra il VSM e il valore imponibile potenziale (VIP) per le abitazioni principali e le altre abitazioni (comprese le pertinenze). FONTE: “Gli immobili in Italia” 2017. Tabella 3.7.

L’impraticabilità di un’imposta patrimoniale generalizzata

La seconda ragione per cui una simile imposta patrimoniale generalizzata non è pensabile è che la sua applicazione coinvolgerebbe diversi milioni di contribuenti, visto che la proprietà immobiliare è molto diffusa, che spesso si troverebbero a pagare un’imposta di importo elevato rispetto al proprio reddito. Ad esempio, solo considerando le case di abitazione, vi sono circa 23 milioni di proprietari di abitazioni con un reddito imponibile non superiore a 35mila euro che, con un’imposta dell’1%, si troverebbero a pagare un’imposta media di 1500 euro (si veda “Gli immobili in Italia“, tabella 3.10).

 Distribuzione del VSM e del VIP medi delle abitazioni principali e secondarie (senza considerare le pertinenze) e del reddito imponibile medio dei proprietari per classe di reddito e dimensione del Comune di residenza
Distribuzione del valore stimato di mercato (VSM) e del valore imponibile potenziale (VIP) medi delle abitazioni principali e secondarie (senza considerare le pertinenze) e del reddito imponibile medio dei proprietari per classe di reddito e dimensione del Comune di residenza. FONTE: “Gli immobili in Italia” 2017. Tabella 3.10.

Un’imposta patrimoniale generalizzata avrebbe, oggi, costi privati, amministrativi e politici insostenibili.

L’unica imposta patrimoniale di cui si può realisticamente discutere è applicabile solo ai titolari di patrimonio di valore sufficientemente elevato da consentire, da un lato, che i contribuenti stessi abbiano un reddito disponibile sufficiente a pagarla e, dall’altro lato, che l’imposta aumenti decisamente la capacità redistributiva del sistema fiscale nel suo complesso.

L’Italia non è come gli Usa

Ma quale dovrebbe essere questa soglia? E quale sarebbe, allora, il gettito ottenibile? Qui si manifestano le differenze tra i dati disponibili per l’Italia e quelli utilizzati per altri Paesi, tipicamente gli Usa. L’unica fonte cui si può attingere nel nostro paese è l’indagine sui bilanci delle famiglie italiane della Banca d’Italia, che si basa su valori autodichiarati dalle 8000 famiglie del campione, rappresentativo dei 25 milioni di famiglie italiane.

Essa consente, quindi, con le dovute cautele, di ricostruire la distribuzione di questa ricchezza dichiarata nell’intera popolazione. Tuttavia, soffre di un grave limite: il valore del patrimonio dichiarato è molto sottostimato rispetto a quello rilevato statisticamente a causa, per citare la stessa ricerca, «della reticenza e difficoltà di valutazione da parte degli intervistati e dell’errore campionario che si associa a fenomeni molto concentrati».

E se si considerasse il 5% più ricco?

Tenendo conto di questo limite, un punto di partenza sufficientemente prudente del calcolo è l’informazione secondo cui il 5% più ricco della popolazione italiana dichiara di possedere un patrimonio medio di 1,3 milioni di euro. Poiché vi sono circa 1,25 milioni di famiglie in questo 5%, queste famiglie dichiarano di possedere insieme un patrimonio di circa 1625 miliardi di euro. Immaginando che un 15% di questo patrimonio sfugga alla tassazione, la base imponibile si ridurrebbe a circa 1350 miliardi di euro.

L’idea potrebbe essere di ottenere una tassazione complessiva dell’1% su questo patrimonio, ovvero di ottenere, sommando la nuova imposta patrimoniale e le imposte esistenti, un gettito totale di 13,5 miliardi di euro. Supponendo, per pura ipotesi, che attualmente, dei 75 miliardi complessivi, almeno 7,5 siano effettivamente pagati dal 5% più ricco, il gettito aggiuntivo effettivo dell’imposta patrimoniale applicata con l’aliquota dell’1% a questa popolazione non sarebbe superiore a 6 miliardi di euro, pari allo 0,31% del Prodotto interno lordo. Un gettito rilevante, certamente, ma non quella soluzione miracolistica che a volte viene sbandierata.


* Professore associato di Scienza delle finanze all’università Milano-Bicocca, membro del comitato di gestione dell’Agenzia delle Entrate, è stato consigliere economico della Presidenza del Consiglio dei ministri ed esperto tributario al Secit (Ministero delle Finanze).