PFAS: i veleni chimici che ci rendono più deboli contro i virus
Considerate pericolose da decenni, le sostanze perfluoroalchiliche ancora imperversano, garantendo miliardi ai big della chimica. Ma danneggiano sistema immunitario e ambiente
Li assumiamo attraverso il cibo e l’acqua potabile contaminati. E indeboliscono la risposta del sistema immunitario ai vaccini, a partire dai bambini. Non sono nuovi virus, ma oltre 4700 composti chimici derivanti dal fluoro, prodotti dall’uomo: gli PFAS. Sostanze perfluoroalchiliche, persistenti nell’ambiente, secondo l’Ocse, che hanno inquinato terreni e falde acquifere in tutto il mondo, arrivando fino al circolo polare Artico, accumulandosi nei nostri organismi.
In Europa, i danni alla salute pubblica causati da tali sostanze sono stati stimati tra i 52 e gli 84 miliardi di euro, ogni anno, secondo quanto riportato nell’ultimo report dell’Agenzia Europea per l’Ambiente. Incalcolabili le conseguenze ambientali, a fronte di oltre 100mila siti potenzialmente contaminati. Questi i costi dell’immobilità delle istituzioni, calcolati dal dossier del Nordic Council of Ministers, che ha valutato fino a 11 miliardi l’anno i danni ambientali per i soli Paesi del Nord Europa.
Dove sono e chi li produce?
Gli PFAS, prodotti a partire dagli anni ‘40 negli USA, sono stati utilizzati in una gamma infinita di prodotti di consumo e applicazioni industriali. Anche in Europa. Posseggono, infatti, proprietà chimiche e fisiche uniche, quali la repellenza all’olio e all’acqua, la resistenza alla temperatura, agli agenti chimici. Sono stati impiegati e, con diverse composizioni molecolari lo sono ancora, nelle schiume antincendio, nei rivestimenti metallici antiaderenti per padelle. Così come negli imballaggi per alimenti, nelle creme e nei cosmetici. Nei tessuti per mobili e abbigliamento per esterni, fino ai pesticidi e ai prodotti farmaceutici.
Come riportano sia Bloomberg Environment che Chemicalwatch, sono stati immessi sul mercato globale, dai maggiori gruppi chimici mondiali. A partire da Dupont a 3M, seguite da Chemours a Solvay, multinazionali con fatturati da miliardi di dollari. La produzione non è mai cessata, pure dopo che due di questi, l’acido perfluoroottanoico (PFOA) e il perfluorottano sulfonato (PFOS) sono stati ritenuti pericolosi per l’uomo, già a partire dagli anni Duemila. Sono state, invece, immesse nel mercato nuove sostanze, a catena molecolare più corta, ma ugualmente altamente inquinanti, come il GenX.
Gli PFAS abbassano le difese immunitarie e riducono la risposta ai vaccini
Intanto, secondo quanto confermato nel 2017 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, gli studi epidemiologici hanno trovato un’associazione proprio tra l’esposizione umana a PFOA e PFOS, con diverse patologie. Dall’aumento del colesterolo a quello degli enzimi epatici, alla riduzione della risposta ai vaccini, fino al preoccupante abbassamento del sistema immunitario, già nei bambini. Individuati come interferenti endocrini, causano disturbi alla tiroide e ipertensione in gravidanza. Gli studi dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), inoltre, hanno confermato un’associazione positiva con i tumori dei testicoli e dei reni, classificando il PFOA come possibilmente cancerogeno per l’uomo, nel Gruppo 2B.
EFSA: ridurre gli PFAS nell’acqua potabile, pesce, frutta, uova
L’Agenzia per la sicurezza alimentare europea (EFSA) ha, nel frattempo, proposto di abbassare, per la seconda volta in due anni, la dose settimanale tollerabile, che assumiamo attraverso l’alimentazione, calcolata su quattro sostanze perfluoroalchiliche. Allo studio le più diffuse e più persistenti. Oltre il PFOA e il PFOS, anche l’acido perfluoronanoicoico (PFNA) e acido perfluoroesano solfonico (PFHxS). Il parere scientifico, sottoposto a consultazione pubblica fino al 20 aprile scorso, propone di scendere ad un massimo di 8 ng/kg per peso corporeo alla settimana.
La valutazione è stata espressa prendendo in esame l’assunzione degli alimenti che contribuiscono maggiormente all’esposizione di PFAS come l’acqua potabile, pesce, frutta, uova e prodotti a base di uova. I soggetti maggiormente a rischio sono bambini e anziani. Da una parte per l’aumento del colesterolo e delle malattie correlate cardiovascolari. Dall’altro, proprio nei più piccoli, assorbire sostanze perfluoroalchiliche porta all’abbassamento delle difese immunitarie e alla diminuzione della risposta del sistema immunitario alle vaccinazioni.
Rischio osteoporosi fra i ragazzi
Nuovi studi epidemiologici, come rimarcano gli esperti dell’ IFC-Cnr di Pisa, inoltre, hanno evidenziato che le interazioni tra vitamina D e esposizione a sostanze perfluoalchiliche, potrebbero favorire lo sviluppo dell’osteoporosi, già in soggetti tra i 18 e i 21 anni.
Meccanismo pericoloso, secondo gli epidemiologi. Perché, oltre al suo noto contributo alla salute muscolo-scheletrica, un livello alterato di vitamina D è stato associato all’inizio e in progressione dello stato di cancerogenesi, a malattie cardiovascolari, alla diminuzione della funzione immunitaria e alla sterilità.
In Europa manca la mappatura delle acque contaminate
Intanto, la Commissione europea ha approvato una prima modifica alla Direttiva acque che porta il valore limite di 0,1 µg / L, per ogni singolo PFAS. Ma si procede ancora a tentoni nell’affrontare il maggior rischio chimico emergente degli ultimi anni. Come ha rivelato la stessa Agenzia Europea per l’Ambiente, non esiste ancora un monitoraggio degli PFAS completo nelle falde acquifere del continente europeo.
Ironia della sorte, è l’Italia ad aver operato una prima mappatura, anche se incompleta, a causa del gravissimo inquinamento causato dalla Miteni di Trissino, in Veneto. L’attività industriale ha inquinato sia le acque superficiali sia sotterranee, nonché l’acqua potabile per oltre 350 mila cittadini. Il monitoraggio condotto dalle autorità della regione Veneto, ha rilevato la presenza di PFOS tra il 63 e 100% dei siti campionati e PFOA nel 100% dei siti. E il primo studio epidemiologico condotto dall’ISS nel 2016, ha rivelato nei residenti nei 21 comuni più contaminati, una concentrazione media di PFOA nel sangue, oltre otto volte superiore a quella rinvenuta nelle persone residenti fuori dall’area.
L’OMS indaga sulla contaminazione da PFAS in Veneto
A causa del disastro ambientale veneto, con le ricadute sulla salute dei suoi abitanti, nel 2017, l’Italia è anche diventata un caso di studio per l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Proprio gli esperti dell’OMS hanno ribadito come siano fondamentali continui studi epidemiologici e biomonitoraggio, per prevenire e limitare i danni sanitari nelle nuove generazioni.
Ma, a tre anni dal report dell’OMS, come hanno denunciato i medici di Isde con un position paper a gennaio 2020, tutto procede a rilento, come la mappatura completa dei pozzi contaminati. Eppure il disastro ambientale, secondo le stime della stessa regione Veneto e ARPAV, riguarda, 350mila abitanti in più di 50 comuni di 4 province venete.
Da una parte il Ministero dell’Ambiente ha stanziato 23,8 milioni di euro per interventi urgenti sulla rete idrica per la depurazione e il suo riammodernamento. Dall’altra, lamentano i Medici per l’ambiente, «manca ancora una norma nazionale che faccia individuare gli PFAS nei fanghi di depurazione delle acque. Prima che siano sparsi sui terreni agricoli come fertilizzanti. Mancano studi epidemiologici ben fatti a disposizione della comunità scientifica. E soprattutto che il limite di PFAS nell’acqua sia pari a zero».
Le nuove molecole? Ugualmente pericolose
Già nel 2015, con la dichiarazione di Madrid, pubblicata su Environmental Health Perspectives, un folto gruppo di medici e scienziati di tutto il mondo, aveva cercato di allertare i decisori sui potenziali danni alla salute pubblica. Denunciando l’immissione sul mercato, da parte delle multinazionali chimiche, di numerose di molecole fluorurate alternative. Tutte con scarse informazioni sulla loro struttura chimica, sulle loro proprietà, sui loro utilizzi e profili tossicologici. Mettendo in evidenza, ancora una volta, i limiti del regolamento europeo REACH.
Eppure, come conferma sempre l’EEA, anche gli PFAS a catena moleolare corta si accumulano nell’ambiente e hanno già contaminato acque superficiali, di falda e potabili, in tutta Europa. Il discorso, oltre che per l’Italia, vale per Austria, Danimarca, Francia, Germania, Paesi Bassi e Svezia. Addirittura sono arrivati ad accumularsi in zone fredde come l’Artico. «Gli PFAS ad oggi regolamentati e studiati, rappresentano solo una piccola parte di quelli presenti e disponibili sul mercato» denuncia Nausicaa Orlandi, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei chimici e dei fisici italiani.
Dark Water: chi ha inquinato, ha pagato?
In Italia è partito il processo per avvelenamento di acque e disastro ambientale contro la Miteni, ormai fallita. In America, lo Stato del Michigan ha intanto denunciato i maggiori gruppi chimici mondiali, responsabili delle produzioni di PFAS. La mossa fa seguito alla via intrapresa dalla stessa EPA (l’Agenzia statunitense per l’Ambiente) e dalle class action operate da gruppi di cittadini contro la Dupont. Il 99% dei cittadini americani, infatti, ha livelli di PFAS nel sangue. Già nel 2005 la multinazionale aveva corrisposto una multa da 16,5 milioni di dollari, per aver nascosto le prove di tossicità e contaminazione dell’ambiente.
Proprio nel 2011, uno studio scientifico finanziato dalla stessa Dupont aveva attestato il probabile legame tra PFOA e cancro del testicolo e del rene, oltre che malattie tiroidee e l’innalzamento dei livelli di colesterolo. Nel 2017 DuPont e Chemours avevano offerto ben 670 milioni di dollari per chiudere la class action. Ad intentarla erano stati 3.550 abitanti della valle dell’Ohio, ammalatisi a causa della contaminazione delle acque. A patrocinarli era l’avvocato Rob Bilott, come racconta il film «Dark Waters».
L’Ong Chemtrust: urge pressione dei cittadini
In Europa, per ammissione della stessa EEA (Agenzia Ue per l’Ambiente), sono ancora molto limitate le informazioni su tutte le effettive applicazioni industriali. E diventa difficile capire come evitare l’esposizione alla contaminazione da PFAS per via ambientale e attraverso la catena alimentare.
Ma ricordano gli esperti dell’Ong ambientalista Chem Trust, ogni cittadino può cominciare a ridurre volontariamente l’esposizione propria e dei bambini agli PFAS. Come? Ad esempio, eliminando i prodotti di uso quotidiano che li contengono: pentole antiaderenti rivestite PFAS, favorendo l’uso di acciaio inossidabile non rivestito. Limitando il consumo di cibo da fast food, che potrebbe essere stato a contatto con carta o cartone, impregnati di PFAS. Evitando l’uso dei cosmetici che contengano nell’elenco degli ingredienti «fluoro» o sostanze come il PTFE.
Ma, ricordano le Ong, cittadini e organizzazioni possono anche fare pressione sui decisori politici, aziende e grande distribuzione per favorire l’eliminazione graduale di questi prodotti chimici. Ottenere risultati concreti è possibile. Lo dimostra la Danimarca: il paese nordeuropeo, entro luglio prossimo, vieterà gli PFAS in tutti gli imballi di carta e cartone utilizzati a contatto con gli alimenti.