Prezzo (in)giusto per l’ortofrutta. C’è chi vuole un’agricoltura insostenibile
I contadini rischiano di rimanere stritolati da un sistema di prezzi "ingiusti" stabiliti dall'industria. A farne le spese anche ambiente, salute e diritti umani
Quella del prezzo giusto in agricoltura è una questione seria. Se si pensa che un contadino a cui arrivano in tasca meno di 4 euro netti per remunerare un quintale di pomodori biologici destinati all’industria si può considerare fortunato. Una cifra che dovrebbe garantire la sopravvivenza di vari posti di lavoro, rappresentando addirittura un valore più alto rispetto a quanto ricevono molti agricoltori bio. E allora la questione del prezzo giusto dei prodotti ortofrutticoli va ben oltre il caso specifico.
Perché la differenza tra un’agricoltura green e capace di reddito per chi la fa, e un’altra votata a speculazione e mera autoconservazione, sta in pochi fondamentali centesimi. E dipende innanzitutto dal rapporto – equo o meno – tra il prezzo dei prodotti venduti sul campo e la spesa per coltivarli.
Oro rosso bio: costi in salita e prezzo all’osso
Per il cosiddetto “oro rosso” i costi di produzione negli ultimi anni sono aumentati del 20-25%, ad esempio, mentre i prezzi si sono egualmente ridotti (rispetto al 2000). La forbice tra costi e ricavi si è così allargata in maniera notevole.
Michele Gaudiano, agricoltore del foggiano che dedica al pomodoro da industria biologico circa 15 ettari della sua Bio Organica Italia, ci svela qualche numero. «I costi di produzione per ogni ettaro, per una produzione media di 900 quintali/ettaro, sono i seguenti:
- terreno 600 euro,
- lavorazioni del terreno 730,
- stesura dell’impianto di irrigazione e pacciamatura 1.400 euro,
- piantine e trapianto 1.760 euro,
- acqua per irrigazione 1.000 euro,
- mezzi tecnici 1.300 euro,
- lavorazioni manuali 700 euro,
- raccolta manuale 1.800 euro,
- spese generali 1.000 euro».
Un totale da cui emerge un costo di produzione di 11,50 euro per ogni quintale di pomodoro, che viene venduto a 15 euro, al netto di provvigioni varie. Tradotto? In mano all’agricoltore e ai suoi collaboratori rimangono 3,5 euro per ogni 100 chili di pomodori biologici ceduti all’industria (trasformatori e grande distribuzione, perlopiù).
Numeri che significano introiti «appena sufficienti» a mantenere questo comparto dell’impresa pugliese, coi 10-15 lavoratori che impiega. Non solo. Numeri che risulterebbero anche piuttosto positivi pensando che, sottolinea Gaudiano, «la maggior parte delle aziende vendono a prezzi medi netti che vanno da 11,50 a 13,00 euro. Troppo bassi – a mio avviso – per giustificare la coltivazione. Generando nei produttori comportamenti non conformi alle normative per rientrare nei costi».
Perché se i suoi 3,5 euro sono “appena sufficienti”, è facile immaginare che, a fronte di una remunerazione inferiore, un contadino possa pensare di abbattere le voci di spesa «affidandosi al caporalato oppure smaltendo i rifiuti pericolosi in modo illegale. E noi dobbiamo spezzare questo circolo vizioso», sostiene Stefano Ciafani, presidente di Legambiente .
Per fare il grano ci vuole… la laurea in economia
Un circolo vizioso in cui, oltretutto, l’andamento degli esborsi per la produzione non sempre segue in maniera lineare l’andamento dei prezzi di mercato dei prodotti agricoli. Soprattutto visto il recente trend al rialzo delle quotazioni del petrolio e derivati, che risultano necessari al funzionamento delle macchine agricole o ai trasporti, ad esempio, sottraendo altre quote di profitto all’agricoltore.
L’altalena della redditività, coi margini che si comprimono, diventa perciò un problema. Che, necessariamente, non vale solo per il pomodoro, né solo per il biologico. Come dimostra il conto colturale relativo a grano tenero e grano duro (campagna 2017-2018), dove svettano, tra tante altre voci, i costi dell’uso della chimica (concimazione e diserbo), che incide per oltre il 43% su quelli complessivi di produzione.
Un peso economico che non colpisce il bio, per il quale tuttavia si fa sentire una produzione media inferiore di circa 30-35 tonnellate/ettaro, insieme al costo superiore della componente meccanica (uso di macchine e attrezzi). E allora i 30 euro per tonnellata di maggior prezzo del bio potrebbero comunque non ripagare le spese di coltivazione e le rese produttive più incerte e incostanti.
I prezzi in mano all’industria globalizzata
L’analisi della catena del valore stilata da Ismea, (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) è allora piuttosto indicativa di certe dinamiche. Su 100 euro destinati dal consumatore all’acquisto di prodotti agricoli freschi, infatti, rimangono all’imprenditore agricolo come utile solamente 6 euro, contro i 17 euro delle imprese del commercio e del trasporto. E nel caso dei prodotti alimentari trasformati, dove la filiera si allunga, l’utile si contrae ulteriormente, scendendo sotto i 2 euro (11 a distribuzione e logistica insieme).
Così accade in un mercato globalizzato, dove l’agricoltore è una goccia in mezzo al mare e chi coltiva risulta essere l’anello debole, con poco potere contrattuale nella fissazione del prezzo. E le imprese agricole, per stare in piedi, spesso sono portate a indebitarsi o a cercare la sostenibilità economica per altre vie: ecoturismo, ristorazione o produzione di energia dai liquami di scarto, ad esempio.
«Nella sostanza il discorso è in questi termini – spiega Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti – Su alcuni prodotti ci sono delle quotazioni stabilite dalle camere di commercio, a cui fanno riferimento gli operatori che li acquistano. In altri casi, come quello del pomodoro da industria, c’è una pseudo-trattativa che porta poi alla fissazione di un prezzo di riferimento, che viene però sostanzialmente deciso dalla parte industriale». Risultato? Quando si acquista una passata al supermercato, si paga più per la bottiglia che per il pomodoro contenuto.
Lo scandalo del bio: copre il 15% dei terreni ma prende solo il 3% degli aiuti
E se il contadino, o l’allevatore, non accettassero il prezzo di vendita imposto, l’industria andrebbe a cercare il latte, il grano o il pomodoro da un’altra parte. «Salvo poi dire che si va a farlo per la qualità, quando invece c’è solo una ragione di prezzo. E più o meno tutto il comparto agricolo e messo nello stesso mondo», chiosa Bazzana.
Agricoltura Ue: redditi instabili minacciati dal clima
La verità è infatti che il panorama dell’agricoltura europea soffre da diversi punti di vista. Economici e ambientali, in stretta connessione. Tanto che la sfida per rendere il settore protagonista positivo delle politiche di contrasto ai cambiamenti climatici è imprescindibile. E deve essere messa al centro della prossima Politica agricola comunitaria (PAC), riforma in discussione a Bruxelles, presidiata dalle varie lobby dell’agribusiness.
Temi affrontati, ad esempio, da Camillo Zaccarini Bonelli (ISMEA) in un recente seminario, ricordando che alcune buone pratiche agricole consentono l’abbattimento delle emissioni climalteranti, nonché un maggiore o minore stoccaggio di sostanza organica nel terreno (il cosiddetto carbon sink).
Pratiche da incentivare assolutamente, scoraggiando invece l’agricoltura che ha maggiore impatto sulle risorse naturali e che, con ampio uso della chimica di sintesi, contribuisce in maniera significativa ai fenomeni di acidificazione. E quindi al peggioramento della condizione attuale, minacciando quella futura.
Macrotemi ambientali, chiave per la sopravvivenza del Pianeta, e che si cominciano ad affrontare dal basso. Dal prezzo dei pomodori, del grano, del latte. Rendendo la filiera agricola sempre più solida economicamente e meno dannosa sul piano sociale e del clima. Consentendole inoltre di emanciparsi dall’attuale insostituibile contributo di finanza pubblica che, attraverso i pagamenti diretti della Pac, droga il mercato.