Questioni sociali e ambientali. Le aziende non raccontano abbastanza
Obbligate dall'Ue a fornire informazioni su temi ambientali, sociali, sui diritti umani e la lotta alla corruzione, le aziende sono ancora indietro. Lo rivela un'indagine
Le aziende sono consapevoli dei rischi a cui sono esposte a causa del climate change, ma non raccontano abbastanza cosa fanno a riguardo. Lo stesso vale per i loro comportamenti in ambito sociale, per la tutela dei diritti umani e sul contrasto alla corruzione. Sono gli ambiti su cui invece società finanziarie e grandi aziende sono tenute a fornire informazioni (lo prevede la direttiva sulla rendicontazione non finanziaria, 2014/95/EU, Non-financial Reporting Directive “NFR”), che obbliga, appunto, banche, assicurazioni e imprese con oltre 500 dipendenti a comunicare (a partire dal 2018) informazioni relative ai temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione.
A che punto siamo?
Dopo un anno l’Alliance for Corporate Transparency – un progetto di ricerca nato tre anni fa, grazie all’iniziativa di esperti del settore e società civile, proprio per verificare come e quanto le aziende stiano rispondendo alla richiesta dell’Ue di fornire informazioni in ambito non finanziario – fa il punto della situazione in un rapporto appena pubblicato. Il risultato è poco confortante.
È stata effettuata un’indagine su 100 delle maggiori società europee nei settori energia, minerario, IT e sanitario, per verificare l’applicazione della direttiva europea sulla rendicontazione non finanziaria.
Risultato: la maggior parte delle aziende è ben consapevole dell’importanza delle questioni sociali a ambientali per il loro business, ma, per quanto riguarda gli impatti sull’ambiente, solo il 50% di queste fornisce informazioni “chiare in termini di azioni concrete, obiettivi e principali rischi”, in ambito sociale e di contrasto alla corruzione solo il 40%.
Non è chiaro l’impatto sul clima
Le informazioni fornite, scrive il rapporto, non sono sufficienti a capire l’impatto delle aziende sull’ambiente e quindi i possibili sviluppi e le performance futuri.
Per fare alcuni esempi. Nel settore energetico solo il 53% delle imprese entra nel merito di rischi specifici legati al climate change, il 26% delinea uno scenario per restare sotto i 2 gradi di aumento delle temperature (come richiesto dall’accordo di Parigi) e solo il 21% fornisce informazioni su un orizzonte di breve e lungo termine.
In base all’indagine la maggior parte delle aziende fornisce informazioni riguardo l’uso dell’acqua, le emissioni inquinanti e i rifiuti. Ma altri aspetti, comunque importanti, sono considerati da poche realtà. Per esempio le emissioni da parte dei mezzi di trasporto (solo il 21% delle aziende li comunica) e i rischi legati alla scarsità dell’acqua (24% delle aziende).
Trascurate anche le tematiche sociali
Poche le informazioni fornite anche in ambito sociale: le aziende inseriscono nella reportistica indicatori riguardo la parità di genere in azienda (81%); le politiche anti discriminazione (79%) e quelle per la sicurezza (80%). Ma anche per questi ambiti la selezione degli indicatori non è standardizzata, non ci sono informazioni dettagliate sugli effetti di tali politiche e pochi inseriscono dati sulla forza lavoro esterna.
Molte aziende descrivono le politiche sul rispetto dei diritti umani, anche per la catena di fornitura, ma la maggior parte non entra nel merito di quanto tali politiche vengano davvero applicate. E scarseggiano dettagli fondamentali per permettere agli stakeholder di individuare i rischi legati a questi temi – specifica il report – per esempio, per le aziende che operino fuori dall’Europa, informazioni sull’acquisizione di terre, sui rapporti con le popolazioni locali e le operazioni in aree ad alto rischio riguardo il rispetto di diritti civili e politici. O anche riguardo questioni più specifiche come i conflitti per le materie prime preziose usate nei componenti elettronici (i cosiddetti “conflict minerals”). Per quanto attiene i rischi lungo la catena di fornitura l’indagine evidenzia un’enorme necessità di trasparenza (è un ambito rendicontato solo dal 6% delle aziende), come anche il rispetto dei diritti dei lavoratori (sempre lungo la supply chain): come il salario minimo (fattore rendicontato solo dal 22% delle aziende) e lo sfruttamento dei lavoratori migranti (10%).
Più equilibrata la rendicontazione riguardo il tema del contrasto alla corruzione. Ma ci sono lacune anche in questa area. Il 63% delle aziende fornisce informazioni sui propri programmi anticorruzione, ma solo il 10% da conto delle proprie spese per le attività di lobby.
Certo, come precisa il rapporto, il fatto che dalla Commissione Europea non siano arrivate indicazioni chiare, né standard concreti, su come rendicontare questi aspetti conta molto. Gli occhi sono quindi puntati sulle nuove linee guida che arriveranno a giugno, la cui bozza è appena stata presentata alla Commissione europea dal gruppo di esperti che ci stava lavorando dall’anno scorso.