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Regolamentazione bancaria: fatta la regola, trovato l'inganno

La nuova normativa europea relativa alle banche è stata adottata lo scorso aprile dopo quattro anni di studi, dibattiti e scontri. Ma per le più grandi ...

La nuova normativa europea relativa alle banche è stata adottata lo scorso aprile dopo quattro anni di studi, dibattiti e scontri. Ma per le più grandi banche europee cambierà poco e hanno davvero poco da temere, a differenza dei cittadini che dovrebbero sapere che a causa di scappatoie le nuove regole non impediscono costosi salvataggi di banche in futuro. E’ quanto sostiene in un lungo articolo Corporate Europe Observatory che utilizza l’esempio di Deutsche Bank a sostegno della propria analisi.
Secondo le nuove regole, le banche sono obbligate a possedere riserve – note come requisiti patrimoniali – più grandi che in passato, per renderli più resistenti alle oscillazioni di mercato. E fin qui, tutto bene. Il problema è che alle grandi banche come Deutsche Bank è permesso calcolare questi requisiti patrimoniali da sole. Permettere questa autoregolamentazione mina le basi della nuova normativa, per esempio permettendo a Deutsche Bank di aggiustare il proprio modello di calcolo interno facendo guadagnare 26 miliardi di euro ai propri requisiti patrimoniali.
Si tratta di una scappatoia che è stata duramente criticata in tempi di crisi finanziaria, ma il fatto che nonostante il lungo dibattito sulla riforma bancaria non si sia trovato rimedio è un segno di come la lobby delle banche sia ancora estremamente potente ed efficace nel perseguire i propri interesse. Come conseguenza, le nuove regole non sembrano offrire alcuna garanzia che in futuro si possano ripresentare casi di salvataggi di banche, che al momento sono costati ai contribuenti europei 1,7 trilioni di dollari. A meno che non emergano pressioni per ulteriori riforme sostanziali.
Le nuove regole dell’Unione Europea derivano dagli Accordi di Basilea, accordi internazionali sulla regolamentazione bancaria negoziati da rappresentanti dei più grandi poteri finanziari nel quadro della “banca centrale delle banche centrali”, la Banca dei Regolamenti internazionali. Il punto chiave degli accordi di Basilea sono i requisiti di capitale, cioè la quantità di capitale che le banche devono mantenere come riserva in relazione alle loro attività. Più sono rischiose le attività (shares, bonds, strumenti finanziari di ogni tipo) e più sono grandi i capitali richiesti. E tutto sembrerebbe semplice, se non fossero diventati molto complessi i calcoli necessari a stimare questo capitale richiesto.
Dal 2004, quando si è introdotta la possibilità per le banche di utilizzare il proprio modello interno di valutazione del rischio, si parla di Basilea II. Questo nuovo approccio era stato spinto con forza da due grandi attori della lobby finanziaria, l’Institute of International Finance, che rappresenta le più grandi banche, e l’International Swaps and Derivatives Association, la più grande associazione di trader finanziari. In sostanza, alle banche è stato permesso di autovalutare secondo i propri complessi modelli di calcolo il livello di rischio dei propri investimenti. Questo ha avvantaggiato i più grandi istituti bancari, a discapito delle piccole banche che sono rimaste bloccate agli standard pre-2004.
La crisi finanziaria ha riaperto il dibattito e una serie di negoziati iniziati nel 2009 si sono conclusi nell’estate del 2010 con l’accordo chiamato Basilea III. Questo processo è stato nuovamente caratterizzato da un’attività insistente delle lobby delle più grandi banche, in particolare del CEO della Deutsch Bank, Joseph Ackermann, che agiva per conto dell’Institore of International Finance. Questo nuovo accordo prevede, in effetti, il restringimento di alcune procedure, ma lascia intatto il principio del calcolo del rischio sulla base del modello interno.
Per quanto riguarda l’aumento di capitale richiesto, le grandi banche hanno reagito bene, come se si fossero preparate per anni all’eventualità diminuendo la stima dei rischi delle loro attività. Secondo recenti scoperte, alcune banche si sono spinte molto lontano nel loro tentativo di affrontare un aumento in capitale richiesto. Gli scandali stanno scoppiando uno a uno: nel gennaio 2012 JP Morgan Chase ha cambiato il proprio modello di valutazione dei rischi e così facendo ha nascosto una perdita di non meno di 4,8 miliardi di euro (6,2 miliardi di dollari) in contratti derivati. Questo incidente ha portato ad aprire un’indagine per frode. Nel marzo dello stesso anno, la Banca d’Inghilterra ha accusato alcune banche con base nel Regno Unito di sopravvalutare il proprio capitale di 59 miliardi di euro nascondendo perdite per 36 miliardi.
Negli ultimi anni, l’avvicinarsi di Basilea III all’orizzonte, ha portato le grandi banche a sviluppare risposte creative in modo da assicurarsi che alla fine dei complessi calcoli la cifra da considerare come requisito patrimoniale non aumentasse troppo.
Deutsche Bank non è un’eccezione. Al culmine della crisi finanziaria nel 2008 il CEO Joseph Ackermann ha affermato con sicurezza che «Deutsch non è mai stata in pericolo» aggiungendo che avrebbe provato vergogna se avessero dovuto accettare denaro pubblico.
Ma nel giugno 2011 emergono le prime testimonianze di tre whistleblower hanno portato le prove di una perdita di circa 13 miliardi di euro in complessi contratti derivati nel corso del picco della crisi, nel 2008.
Questo episodio è particolarmente imbarazzante per Ackermann e la Deutsch Bank perché una corretta valutazione del capitale della banca l’avrebbe posta nel numero degli istituti che necessitavano l’aiuto del governo tedesco, minando sensibilmente la fama di banca solida.
Non solo. Nel 2012 Deutsch Bank ha avuto un grosso problema con i requisiti patrimoniali richiesti. Per evitare il problema, la banca ha compiuto tre azioni: ha svenduto le attività rischiose, ha comprato derivati per assicurarsi contro le perdite su altre attività e, ultimo ma non meno importante, ha aggiustato considerevolmente i propri modelli interni di valutazione del rischio. In totale, la banca è riuscita ad aggiustare il suo bilancio di 55 miliardi di euro di cui 26 miliardi sono il risultato del solo gioco con i propri modelli di valutazione del rischio.
Insomma, ci sono prove sufficienti per affermare che le banche stanno usando modelli ben disegnati per abbassare i requisiti patrimoniali a un livello tale per cui le regole stabilite sulle riserve risultano praticamente prive di senso. Qualsiasi tentativo di rendere le banche più resistenti alle oscillazioni di mercato aumentando i requisiti patrimoniali sarà vano se si continuerà a lasciare alle banche la possibilità di usare i propri modelli interni. Alcuni specialisti e regolatori si spingono persino oltre, chiedendosi se i requisiti di capitale siano gli strumenti migliori per evitare il collasso delle banche.
Nel momenti in cui la UE adotta la sua versione diluita degli accordi di Basilea questi ultimi vengono messi in discussione. La domanda a cui trovare risposta è: come si può salvaguardare il pubblico da costosi salvataggi di banche e da misure di austerità che tendono ad accompagnarli? Una strada potrebbe essere finirla con l’autoregolamentazione, creare un settore bancario diverso, dove non esistono banche too-big-to-fail e con banche pubbliche che siano una componente via via crescente. Le grandi banche private hanno avuto la loro possibilità.