L’ambigua favola della Royale Union Saint-Gilloise
Il club belga è il primo a ricevere il prestigioso certificato di sostenibilità B Corp, ma come spesso capita certi traguardi sono poco chiari
Anche il calcio può essere sostenibile. Lo dimostra la Royale Union Saint-Gilloise, squadra dell’omonimo quartiere di Bruxelles, che a inizio anno ha ottenuto il prestigioso certificato B Corp. Dimostrando così di essere all’avanguardia per quel che riguarda gli standard di trasparenza, responsabilità e sostenibilità. Il B Corp è infatti uno status che l’ente no profit americano B Lab concede molto di rado. Tanto che sono meno di settemila in tutto il mondo le aziende che possono fregiarsene. E il Royale Union Saint-Gilloise è la prima e finora unica squadra di calcio ad averlo meritato.
La storia del club è curiosa. Vinceva molto fino agli anni Trenta, tanto da essere ancora la terza squadra belga per trofei. Poi in pratica è scomparso dai riflettori per mezzo secolo. Fino a che, qualche anno fa, è stato promosso in Pro League – massima divisione del campionato belga – e per due anni ha sfiorato addirittura il titolo, arrivando comunque ai preliminari di Champions League. In questo modo è subito diventato il team più tifato dagli hipster calcistici, ovvero dagli expat che lavorano in Belgio per la Ue e per i suoi derivati. O dai vari appassionati europei in cerca di favole calcistiche.
Le favole non convincono mai
Perché in effetti quella del Royale Union Saint-Gilloise è una favola. E come ogni favola è piuttosto ambigua. È un club moderno e multietnico, in campo e sugli spalti, molto attento a presentarsi come rispettoso di tutte le differenze e in aperta opposizione a ogni tipo di conflitto. E come tutte le istituzioni occidentali che agiscono secondo questi principi rischia di presupporre un’adesione a non meglio specificati valori universali, e quindi superiori. Valori verso i quali non è necessario confliggere, tanto non si possono migliorare.
La stessa politica economica del club si rifà al player trading e al famoso metodo degli algoritmi moneyball, sperimentato anche da società come Milan, Brighton, Brentford e Midtjylland. Ovvero l’apoteosi della teoria neoliberale applicata allo sport. Detto ciò, è sicuro che la gestione del Royale Union Saint-Gilloise sia migliore di quella del restante 99,99% dei club di calcio europei per la sua attenzione ai temi sociali, politici e ambientali. Ma anche qui c’è un però. Le emissioni ci sono, e per ridurle si fanno accordi di compensazione piantando alberi in Africa. La raccolta differenziata c’è, ma la si fa sponsorizzata dalla Coca Cola.
E nemmeno i certificati
Lo stesso vale per la certificazione B Corp ottenuta dal club. Da un lato questo status è prestigioso, perché si ottiene solo con un elevato punteggio nei parametri di rispetto dell’ambiente (rinnovabili, emissioni, riciclo, etc.) delle buone pratiche aziendali (etica, governance, diritti dei lavoratori, etc.). Dell’impatto sociale (sostenibilità, trasparenza, iniziative per la comunità, etc.) e delle partnership commerciali (valore, durata, etc.). Cose buone e giuste, cui dovrebbero sottostare tutte le aziende del globo e per le quali è corretto battersi.
Dall’altro è anche vero però che lo stesso status B Corp è stato consesso dall’ente no profit americano B Lab anche a diverse multinazionali la cui lista di “controversie” nelle pagine Wikipedia è più lunga di tutto il resto. Ad alcune agenzie per il lavoro interinale che alimentano precarietà e sfruttamento. A compagnie che producono cibo per neonati, con effetti di mortalità devastanti nei Paesi del sud del mondo. A aziende che hanno avuto più di qualche problema con la giustizia per corruzione o abusi di posizione dominante. Di sicuro, una cosa buona fatta dalla Royale Union Saint-Gilloise è di ricordarci che le favole sono sempre ambigue