Danske, la Russia e il riciclaggio: la banca che fa crollare il mito danese
Nemmeno la Danimarca è immune agli scandali finanziari. Danske, prima banca del Paese, è sotto inchiesta per riciclaggio. Un clamoroso avvertimento per l’Europa
«L’opinione pubblica è scioccata dal fatto che la più importante banca danese sia stata coinvolta nel riciclaggio di denaro per conto della criminalità organizzata e di regimi dittatoriali». Rispondendo alle domande di Valori, Pelle Dragsted, deputato della sinistra ecologista al parlamento di Copenhagen, non usa mezzi termini. Danske Bank, principale istituto del Paese, è nell’occhio del ciclone con l’accusa di aver ripulito per anni capitali sporchi provenienti dalla Russia.
Non è la prima volta che la Danimarca si trova ad affrontare qualche pasticciaccio brutto in campo finanziario: nel 2013, il salvataggio del colosso locale Dong Energy da parte di Goldman Sachs – con tanto di controversa sponsorizzazione governativa – suscitò molte polemiche. Ma le cifre in gioco questa volta sono davvero impressionanti. E le ricadute di immagine, per “il secondo Paese meno corrotto del mondo”, seguono a ruota.
Uno scandalo da 200 miliardi
Tra il 2007 e il 2015, come ha spiegato tra gli altri il Financial Times, Danske Bank avrebbe gestito capitali di origine sospetta per 200 miliardi di euro attraverso la sua filiale estone. La provenienza esatta del denaro non è nota, così come la sua destinazione finale.
Ma gli elementi, tuttora frammentari, sono già sufficienti a dipingere uno sfondo a tinte scure: clienti russi, società offshore, paradisi fiscali, triangolazioni consolidate tra Panama, Belize, Isole vergini britanniche e Regno Unito.
Aggiungete i familiari di Vladimir Putin, la “lavanderia” azera, tre omicidi eccellenti e il gioco è fatto. Per quanto opaca – i dettagli da chiarire sono sterminati – la vicenda Danske è già pronta a qualificarsi come il più colossale fenomeno di riciclaggio bancario della storia.
C’è del marcio. In Estonia
E dire che i sospetti erano forti fin dall’inizio. Nel 2007, l’istituto danese acquisisce la filiale estone della finlandese Sampo Bank. A Tallinn conoscono già la situazione e si premurano di condividere i propri timori con Copenhaghen: attenti, il denaro della clientela estera è di dubbia origine. La banca centrale russa comunica più o meno la stessa cosa. Negli uffici di Danske, però, regna la calma e nessuna inchiesta viene avviata.
Nel 2013 JPMorgan, che gestisce le transazioni in dollari nella filiale interrompe la collaborazione con Danske: troppi sospetti sulla clientela, si dice. A quel punto le gole profonde iniziano a parlare e la tensione sale.
Le operazioni sui conti dei non residenti, tuttavia, verranno chiuse soltanto due anni più tardi, nel dicembre del 2015. Thomas Borgen, l’uomo che per anni aveva gestito gli affari sul Baltico, nel frattempo, ha fatto carriera: dal 2013 è diventato addirittura Ceo della banca. Conserverà l’incarico fino al settembre 2018, quando il terremoto della cronaca lo costringerà alle dimissioni.
La banca dalle uova d’oro
Cosa ha spinto Danske Bank a ignorare per così tanti anni gli allarmi? «Per farla breve, l’avidità» risponde Dragsted puntando il dito sui conti della filiale estone. Il riferimento corre al rapporto redatto dallo studio legale Bruun & Hjejle secondo il quale la banca di Tallinn avrebbe contribuito da sola a non meno del 10% dei profitti totali registrati da Danske tra il 2008 e il 2011. Una percentuale abnorme se si pensa che le attività estoni valevano all’epoca non più dello 0,5% degli asset totali del gruppo.
E non è tutto: negli uffici sul Baltico, come noto, si gestivano i movimenti di denaro ma non si facevano prestiti. Il che significa – semplificando – che in termini finanziari non si rischiava nulla. La sede di Tallinn, di conseguenza, non aveva nemmeno bisogno di cercare fondi extra per adeguarsi ai requisiti di capitalizzazione imposti dall’Europa (la famosa Capital Requirements Directive o CRD IV).
Insomma, si guadagnava e si risparmiava al tempo stesso. Ottimo, no? No. Perché adesso Danske rischia di pagare una multa alquanto salata. Il Dipartimento di Giustizia USA ha aperto un’inchiesta, e l’agenzia di rating Moody’s ha declassato l’istituto.
Un avvertimento per la Ue
Per un Paese come la Danimarca, abituato a fare notizia per i progressi nei diritti civili o le ambiziose iniziative in campo ambientale e sociale, lo scandalo bancario può avere conseguenze dirompenti. Danno di immagine, si diceva. Ma il problema non è solo danese. Perché ciò che è accaduto tra Tallinn e Copenhagen, si inizia oggi a sospettare, potrebbe costituire solo «la punta dell’iceberg» di un fenomeno ben più vasto.
Le norme europee sul segreto bancario, hanno denunciato di recente gli eurodeputati Verdi, sono ancora carenti e il rischio è che in assenza di regole più severe evasione e riciclaggio possano continuare a proliferare.
Dragsted, da parte sua, ha una posizione più radicale: «Va bene introdurre nuove leggi sulla trasparenza, ma occorre anche una prospettiva più ampia» dichiara.
Secondo il deputato danese, «servono cambiamenti radicali: dobbiamo frammentare le grandi banche commerciali in unità più piccole, sostenere società finanziarie private no profit e istituire un sistema bancario pubblico alternativo».
L’Autorità Bancaria Europea e la BCE propongono da qualche tempo l’istituzione di un ente antiriciclaggio comune nella UE. Ma in quel caso, sostiene l’Economist, i Paesi che hanno legami più stretti con la Russia potrebbero fare resistenza.